Lo sguardo malinconico, da buono. Le labbra semichiuse in un sorriso triste e inesprimibile – dicono – anche in seguito a un incidente che aveva subìto durante il servizio militare: una scheggia di legno l’aveva colpito al viso. Humphrey Bogart, detto Bogey (1899-1957), nonostante sia scomparso da ben più di mezzo secolo, ha una sua precisa identificazione alla pari di altri celebratissimi miti del cinema – Jimmy Dean, Marilyn Monroe, Marlon Brando – anche tra i giovani. E sopravvive nella memoria collettiva, come accade ai grandi, con diversi stereotipi: un uomo con lo smoking bianco, appoggiato al bancone del Rick’s Café Américain mentre dice all’amico pianista Sam: “Play it, play it again”. La canzone – famosissima – è “As time goes by”; il film è “Casablanca (1942), di Michael Curtiz. Oppure, nelle vesti del giornalista, e direttore Ed Hutchinson che a colloquio con un malavitoso profittatore accosta la cornetta del telefono alle rotative in funzione ed esclama: “È la stampa, bellezza. E tu non ci puoi fare niente…”. È la scena finale del film “L’ultima minaccia” (Deadline-U.S.A., 1952), di Richard Brooks.
V’è da chiedersi quanti ex-giovani si siano ispirati a quella figura per intraprendere, con mille sacrifici, la carriera del giornalista indomito, in Italia, così forte, così anglosassone… E pensare che nella versione americana il personaggio cattivo era un certo Rienzi, di origini siciliane, mentre da noi il nome venne tradotto in Rodzich, improbabile immigrato dell’Europa dell’Est.
Bogart, a quanto risulta, è quasi sempre ritratto con abiti dalla foggia ormai demodé: il cappello a tesa larga, il cappotto o il trench con il collo alzato, il viso appena oscurato dalla barba di una giornata, il cravattino a farfalla o la cravatta bene aggiustata, la sigaretta fumante tra le dita… Il mito – anche visivamente – sopravvive così. Ma non fa sorridere, sebbene quelle mode siano decisamente superate o aspramente criticate (si pensi alla sigaretta…). Convince ancora, suscita tenerezza.
Humprey Bogart – si dice nelle biografie – non era dotato di un fisico da “terminator”. Pare addirittura che a malapena arrivasse al metro e settanta di altezza. Cosa che, inevitabilmente, gli procurava difficoltà specie quando si doveva confrontare con partner femminili o antagonisti maschili, marcantoni magari da stendere con un uppercut. Era la sua intera figura a emanare fascino e forza, una figura da “uomo normale”, come all’epoca ce n’erano a milioni. E anche oggi.
E poi la voce: forte e morbida allo stesso tempo, in ogni caso ammaliante. Si dice che fosse stata proprio la voce ad affascinare la donna (l’attrice) che divenne poi la sua terza moglie – Lauren Bacall –, che allora aveva meno della metà dei suoi anni. Siamo verso la fine degli anni Quaranta del Novecento. Humprey era già un affermato divo di Hollywood (tuttavia sarebbe stato premiato con l’Oscar solo nel 1952, per la sua interpretazione nel film “La Regina d’Africa” – The African Queen, 1951, di John Huston, accanto a Katharine Hepburn). Da noi la sua voce straordinaria era stata replicata dai migliori doppiatori dell’epoca: Bruno Persa, Emilio Cigoli, Gualtiero De Angelis. E anche Cesare Polacco: il famoso ispettore Rock di Carosello, il “pelatone” che non aveva mai usato una certa brillantina.
Anche nei film di gangster – e ne interpretò diversi – il personaggio-Bogart spesso non appariva come “cattivissimo”. Pensiamo soprattutto a quel capolavoro che è “Una pallottola per Roy” (High Sierra, 1941, con Ida Lupino, sceneggiato da John Huston e diretto da Raoul Walsh). Il suo viso malinconico, e la piega amara del sorriso, tracciava in fondo umanità, senso dell’onore e di una personale, intima lealtà. Nei film in cui interpretava l’investigatore privato (il Sam Spade di “Il mistero del falco” – The Maltese Falcon, 1941, di John Huston, o l’ancora più noto Philip Marlove di “Il grande sonno” – The Big Sleep, 1946, di Howard Hawks) Bogey dava – ha dato – invece il meglio di sé, contribuendo a incentivare e a consolidare per sempre lo stereotipo dell’uomo solo e onesto, affascinante e malinconico.
Si può pensare, visto il procedere della carriera e dei ruoli, che Bogart fosse stato in gioventù un poverocristo che s’era dovuto affermare tra mille avventure e sacrifici. Un po’ discolo, in verità, lo era stato; e in lunghi periodi anche attaccato all’alcol. Ma la sua famiglia newyorkese apparteneva all’alta borghesia: il padre era un apprezzato medico chirurgo, la mamma una disegnatrice pubblicitaria. Egli stesso, d’altra parte, anche nei momenti più duri della carriera – agli inizi – non aveva mai cessato di considerarsi “un uomo di classe”.
Quando i primi sintomi del male cominciarono a manifestarsi – nella seconda metà degli anni Cinquanta – Bogart stava godendo il momento più grande della sua fama di attore (come detto, nel ’52 era stato premiato con l’Oscar) e della sua felicità di uomo: Lauren gli aveva dato due figli, Stephen, come si chiamava il protagonista di un suo film, “Acque del Sud” (To Have and Have Not, 1945, di Howard Hawks, tratto dal romanzo di Hemingway, il film che gli aveva fatto conoscere la donna della vita) e, poco dopo, una bimba, Leslie, come il suo più grande amico e attore Leslie Howard (1893-1943). Bogart diceva spesso alla moglie: “Siamo troppo felici, stiamo troppo bene. Prima o poi dovremo pagare un conto salato”. Alle due del mattino del 14 gennaio 1957 Bogey diede l’addio alla sua Lauren e ai bambini.
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