“Vi presento Antonio Mosto che non beve, non fuma, non giuoca e non bestemmia, che insomma ha il vizio di non avere nessun vizio”. Così Giuseppe Mazzini diceva di Antonio Mosto, patriota e politico ligure, fondatore del Corpo dei carabinieri genovesi che combatterono il 26 maggio 1859 a Biumo Inferiore e a Malnate agli ordini del generale Garibaldi. Provetti tiratori, armati rigorosamente di carabina e schierati sempre in prima fila, impegnarono battaglia con gli austriaci di Urban alle dieci del mattino, al ponte occidentale di Malnate, sostenendo per un’ora, in ventotto, il fuoco di quattrocento austriaci. Attesero l’arrivo del secondo battaglione Bixio e il reggimento Medici. Al seguito di Garibaldi, in quel glorioso 1859, si distinsero il 27 maggio a San Fermo, il 15 giugno a Treponti e alle Bettole, il 6 e 7 luglio sullo Stelvio dove fermarono gli austriaci nell’ultimo giorno di guerra.
Lo spiega Liliana Bertuzzi, dell’Istituto mazziniano di Genova e presidente del comitato provinciale per la storia del Risorgimento italiano, in un capitolo del libro “La Liguria e l’Unità d’Italia”, a cura di Erio Bertorello, pubblicato nel 2011 da Silvana Editoriale per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei ministri. Biumo fu il loro battesimo del fuoco. Tenevano le carabine “care come spose”. Le avevano sempre in spalla. Si erano addestrati nei campi del tiro a segno a Genova e quando Garibaldi, nominato maggiore generale dell’esercito sardo, ebbe dal re Vittorio Emanuele II l’incarico di costituire il corpo volontario dei Cacciatori delle Alpi, furono aggregati al battaglione Bixio. Il capo di stato maggiore Francesco Carrano, nell’ordine del giorno emesso a Varese il 26 maggio 1859, scrisse che “i Carabinieri Genovesi hanno demoralizzato il nemico coll’aggiustezza dei loro tiri e la loro buona continenza sul campo di battaglia”.
L’anno dopo, trentanove Carabinieri genovesi s’imbarcarono a Quarto con i Mille e altri si aggiunsero nelle spedizioni successive al 5 maggio 1860 fino a raggiungere il numero di quattrocento. Inquadrato come ufficiale, e tra i pochi non genovesi, fu Giovanni Terruggia, ventitreenne commerciante di Laveno, uno dei nove varesini che parteciparono all’impresa. Indossavano giubbe di panno grigio-azzurro come i berretti, con profilatura in nastro nero e piccoli bottoni bruniti. Il loro aspetto signorile suscitava ammirazione. Garibaldi predicava che “il fucile non dev’essere se non il manico della baionetta” e i Mille furono celebri per i furiosi “corpo a corpo”, con il Generale in persona che spingeva alla carica. Ma, in più di un’occasione da Calatafimi al Volturno il Nizzardo si affidò all’infallibile mira dei Carabinieri genovesi, tiratori formidabili, armati a proprie spese.
Le loro ottime carabine federali, modello 1851, Chasseurs svizzeri ad alta precisione, erano le più belle armi della spedizione. La maggior parte degli altri garibaldini aveva vecchi fucili di fabbricazione anteriore al 1848, lunghi, pesanti, arrugginiti, veri e propri catenacci trasformati da pietra focaia a percussione. L’origine dei Carabinieri genovesi è collegata alla nascita della Società del tiro nazionale fondata nella città della lanterna il 30 marzo 1851. Si addestravano all’uso della carabina e della pistola in un fosso rettangolare accanto al Lazzaretto della Foce, lungo duecento metri e circondato da alti muri. Studiavano il funzionamento e il puntamento delle armi per non sprecare munizioni. Nel 1859 i soci erano già un migliaio con un’organizzazione sportiva, politica e militare: sportiva perché allenava gli iscritti a colpire il bersaglio, politica perché i componenti erano seguaci di Mazzini e repubblicani, militare perché l’allenamento al tiro serviva a preparare i futuri combattimenti per l’Unità d’Italia.
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