Il razzismo è una cosa seria, inquietante, da azzerare. Non è una buona idea ridurlo a burletta o a variabile impropria dei risultati calcistici e gettarlo nella marmellata delle trasmissioni televisive in cui alla starlette scollata e all’opinionmaker semianalfabeta si troverà comodo aggiungere il colored offeso. Si corre il rischio di occultare agli occhi dei più il razzismo vero e strisciante che insieme al buonismo di maniera (lontanissimo dalla vera solidarietà) rischia di intristire il nostro futuro.
Facciamo finta che siano successi questi due episodi. L’acclamato campione di un’importante squadra di calcio va a giocare, dopo le feste di fine d’anno, un’amichevole indesiderata su un campo di provincia. Non solo è svogliato e giù di forma, ma trova sulle tribune una decina di ragazzotti che lo sfottono di brutto, insultando la sua fidanzata, nota per le pose senza veli.
Altro caso. Durante la partita di una serie minore c’è uno scontro di gioco tra due giovani calciatori; gli animi si riscaldano, i due si scambiano insulti ma uno esagera e colpisce l’avversario, quindi viene espulso, mentre la sua squadra sta già perdendo.
Sin qui stiamo parlando di normali vicende calcistiche, non certo eleganti ed esemplari ma neppure sconvolgenti.
Aggiungiamo un elemento: in entrambi i casi i due calciatori – lo svogliato, l’espulso – si sentono a tal punto vittime da allontanarsi platealmente dal campo, inducendo a farlo anche i loro compagni.
Nel sistema di regole che deve necessariamente reggere qualsiasi attività sportiva organizzata, un comportamento simile, se non è autorizzato dalle autorità – del gioco, cioè l’arbitro che ritenga di dover sospendere la partita, o della sicurezza pubblica, per motivi di tutela dell’incolumità delle persone – costituisce una forma di aperta slealtà perché rimette all’arbitrio di una squadra l’esito della partita.
Aggiungiamo un altro elemento. Il calciatore svogliato e quello espulso si dichiarano vittime di insulti razzisti. A questo punto tutto cambia. Basta proclamarlo, non importa accertare quello che effettivamente è successo.
Non importa nemmeno, agli antirazzisti da salotto, il fatto che gli unici soggetti incaricati del controllo (l’arbitro, l’autorità pubblica) non abbiano ritenuto che vi fosse in corso un attacco alle persone così grave da imporre la chiusura delle partite.
Il resto è in discesa: proclami verbosi, randellate di parole sui perfidi tifosi, la solita acqua pestata nel mortaio sul razzismo presunto dei tifosi, con citazione particolare per quelli della Lazio a cui si aggiunge ora (“Aver compagno al duol scema la pena” dice Dante) il razzismo bustocco: perché il primo episodio accade durante l’amichevole Pro Patria-Milan, il secondo durante una partita del campionato “Berretti” tra Casale e Pro Patria (Il Casale perdeva, il suo giocatore è stato espulso, il cattivo razzista era della Pro Patria).
Molti anni fa giocava nella Lazio un difensore di nome Paolo Negro. Seduto all’Olimpico (la partita era Lazio-Udinese, ricordo un gran gol di Salas) mi unii alle risate generali (sarò un pernicioso razzista?) quando un tizio, trattenendo a sua volta a stento le risate, disse a voce alta: “A regà, ma quanno pija la palla Negro dovemo da fà er buu razzista?”.
È difficile che un razzista militante sia anche autoironico.
Per carità, non nego che tra i tifosi della Pro Patria o della Lazio (o dell’Atalanta o della Vigor di Lamezia Terme) ci siano dei retrivi razzisti; anzi, i “quattro pirla” dello stadio Busto Arsizio descritti dal sindaco della città, all’Olimpico, per questione statistica, saranno cento o duecento. Disapprovati dalla società calcistica e dalle decine di migliaia di spettatori di ogni partita. Sono però persone, cittadini, a cui forse non viene offerta alcuna altra forma identitaria che quella. Razzisti immaginari per sentirsi individui e società, su quei gradoni.
Eppure i “buu” non sono razzisti e né la Pro Patria né la Lazio e neppure i loro tifosi possono essere marchiati con questo infame titolo solo per questo. Lo si ricava da considerazioni semplici.
Se gli ululati fossero “razzisti” i tifosi dovrebbero indistintamente rivolgerli anche ai calciatori di colore delle proprie squadre; e se le società fossero “razziste” non dovrebbero far giocare calciatori di colore, come invece accade, senza problemi e senza enfasi posticce.
Lo stadio è un luogo sin troppo facile dove far finta di confinare i nostri problemi.
Siamo sicuri che nelle caserme e nelle questure in cui si indaga alacremente sui tifosi di calcio un ragazzo africano, non calciatore e non famoso, sia sempre accolto con umanità, comprensione e rispetto dei suoi diritti di uomo e di cittadino?
Il presidente della Lazio spesso insiste sulla ricerca di parametri etici nel rapporto con i calciatori e nella stessa scelta di quelli da far giocare nella sua squadra, così come nella gestione economica della società, da condurre senza eccessi; e quando qualcuno sottolinea la competenza tecnica dell’allenatore Petkovic, ribatte ricordando il volontariato che egli ha svolto per la Caritas.
Altri presidenti di società di calcio, invece, rastrellano minorenni in Africa o in Sudamerica sperando nell’affare: e pazienza se dopo qualche mese hanno creato dei disadattati da mettere sulla strada.
“Il sole dentro” di Paolo Bianchini, il film che parla della tratta dei giovanissimi calciatori africani, non è stato un film di successo, non ha avuto un’adeguata distribuzione.
Il successo arride facilmente a quelli che vanno in televisione a sparare su Busto Arsizio, non ai ragazzini che, come i protagonisti del film, quando i calci al pallone finiscono, vengono semplicemente abbandonati in una stazione di servizio; e neppure a chi prova a raccontarne la storia.
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