“Lire 13,6 per bottiglie di vino di Malaga, lire 6,10 per olio d’oliva (metà portato a Lesa), 8,10 lire di buttiro, 3 di lardo, 0,16 per quattro quinterni di carta morella, 4,10 pagate al Cavalante Belinetti per aver condotto da Milano a Varese una scorba di bottiglie, 15,6 per buccato…”. Sono le spese sostenute per il soggiorno a Morosolo “dell’Illustrissimo signor conte Stefano Stampa, padrone di casa, della contessa madre Teresa Borri vedova Stampa, di don Alessandro Manzoni suo marito, di due donne, tre domestici e una persona fatta venire da Lesa”. Lo compilò il fattore della villa, Antonio Maspero, in occasione dell’unica settimana in cui l’autore dei Promessi Sposi andò a Morosolo, dall’11 al 18 agosto 1847, ospite del figliastro “che amava trascorrervi lunghi e solitari soggiorni dilettandosi con tavolozza e pennelli”.
L’austero e romantico edificio si trova non lontano dalla chiesa del paese, segnalato all’esterno da una lapide cementata nel muro di cinta il 29 giugno 1973 per il centenario della morte di don Lisander. Nel libro “Grande e piccola vita d’Alessandro Manzoni” (Famiglia Meneghina, 1947), Ezio Fiori ricorda il vigneto e le pregiate uve di Morosolo “che comparivano in tavola in maggio, gelosamente conservate” e la “solida poltrona” che la seconda moglie del romanziere, la vedova Stampa appunto, fece spostare da Lesa per l’occasione. “In luglio don Alessandro appariva stanco e depresso – scrive Flori -. Si era inutilmente logorato il cervello intorno a quella seconda parte della Morale Cattolica che aveva quasi promesso a Rosmini e della quale poi nulla fece, limitandosi alla nota appendice del capitolo III”.
Oltre alla fatica intellettuale, tormentava Manzoni un “reuma alle reni”. Si pensò quindi di alleviarlo, distraendolo, con la visita a Morosolo. Ma occorreva organizzare decentemente il soggiorno, ammobiliare la casa e provvedere ai rifornimenti alimentari da Varese e dai paesi vicini. Da Milano donna Teresa portò una scorta di vino, da Lesa fece arrivare la crusca per i cavalli e dispose perché la villa fosse attrezzata “di quattro portacatini, altrettanti catini, orjnari, biancheria linda di bucato, boccali per il vino e quinterni di carta per scrivere. Ogni giorno un domestico andò a Varese e acquistò pane, farina, sale, aceto e riso”. Di vino, del resto, don Alessandro s’intendeva. Era un appassionato studioso di botanica, frutticoltore e viticoltore. Nella tenuta di Brusuglio, in Brianza, impiantò già nel 1829 un vigneto di uve della Borgogna.
Maurizio e Letizia Corgnati raccontano in “Alessandro Manzoni fattore di Brusuglio” (Mursia, 1984) che non restò soddisfatto della vigna sperimentale e scrisse a Cesare Cantù: “Veramente le viti non prosperano come mi era ripromesso. Intanto ho fatto le bottiglie di vino e lo assaggeremo dopo qualche anno. Se anche non riuscisse proprio di Borgogna, sarà vino migliore di quel che si fa in queste pianure….” . Una lista indica 58 tipi d’uva che coltivava a Brusuglio tra cui Lacrima Christi, Tokaj ungherese e Borgogna, bianco e rosso. Manzoni è interessato alla campagna ma vi si dedica attivamente solo dopo la stesura definitiva dei Promessi Sposi. Si fa mandare le barbatelle dagli amici nobili e agricoltori e mette insieme una ricca biblioteca specialistica. Lo anima un interesse scientifico e pare accertato che progettasse di redigere un trattato di viticoltura.
Nei Promessi Sposi utilizza il nettare dell’uva per la splendida metafora di Perpetua: “…certo è che così gran segreto stava nel cuore della povera donna come in una botte vecchia e mal cerchiata un vino molto giovine, che grilla e gorgoglia e ribolle e, se non manda il tappo per aria, gli geme all’intorno e vien fuori in ischiuma, e trapela tra daga e daga, e gocciola di qua e di là…”. Non manca la disquisizione sui vini alla tavola di Don Rodrigo e abbondano i termini della cucina povera, la polenta bigia di grano saraceno nella casa di Tonio, lo stufato di Renzo all’osteria, il minestrone, il pan di misture, le polpette, la carne secca e il formaggio prealpino. In casa del sarto si gustano il cappone, il vino di botticina e di fiaschetto. Secondo lo storico saronnese Vittorio Pini, il letterato scrisse anche la ricetta di un infuso, il Liquor Manzoni Digestivo, conservata nella sala manzoniana alla biblioteca di Brera.
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