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Politica

SENZA USCITA DI SICUREZZA

MASSIMO LODI - 11/01/2013

È dunque passata la linea leghista del pragmatismo. A narici tappate, ma è passata. Il Pdl scaricato due mesi fa in Regione è un Pdl che diventa il sodale per tentare l’acrobatica conquista della Regione medesima. Anche ai berlusconiani conviene rimettersi con l’alleato storico: la cronaca recente finisce in archivio, nella convinzione che gli elettori fan presto a scordare. Oppure no? Mah, forti dubbi circolano. Perfino (soprattutto) nella base del Carroccio: il timore è che riproporre il vecchio, dopo aver tanto sbandierato il nuovo, sia un perfetto suicidio.

Ai bossiani che distillano acidità sulla retromarcia succeduta all’epoca delle ramazze, quando dentro il partito si scopò via il cerchio magico e fuori del partito si troncò il rapporto col Cavaliere sostenitore di Monti, i maroniani replicano che gl’idealismi portano entusiasmo sempre, risultati quasi mai. Ovvero: andar da soli al voto avrebbe evocato il durismo romantico, ma prodotto nulla di vincente. Ora invece vive la speranza, anzi la certezza, d’ottenere il massimo possibile per un movimento territoriale: diventare padroni a casa propria. Vincere in Lombardia, il trionfo dei trionfi. E creare con Piemonte, Veneto e Friuli la macroregione nordista.

E il prezzo da pagare? Non c’è prezzo da discutere, per una vittoria così. E se non fosse vittoria? Beh, se non fosse vittoria, sarebbe la sconfitta delle sconfitte. Una tragedia politica. Significherebbe il crollo del residuale consenso, con la necessità d’una rifondazione-bis: avanti (indietro) con la Lega3, preso atto del dissolversi della Lega2 sic et simpliciter come la Lega1. Diluvierebbero le critiche per aver liquidato il progetto di corsa solitaria, che assicurava onore rigenerante, entusiasmo identitario, orgoglio d’appartenenza. Una sorta di palingenesi, di rinnovamento radicale, capace di scacciare le ombre, gl’imbarazzi, i dubbi dei recenti e penosi trascorsi. Era l’ipotesi della ripartenza senza compromessi, e poi andasse come doveva andare: la gente avrebbe capito che alle buone intenzioni s’affiancavano anche fatti consequenziali. Nel tempo, la scelta sarebbe risultata premiante.

Adesso la gente capirà? Chi dice di sì: capirà il sacrificio di un’alleanza che fa venire l’orticaria e però muove al sognare in grande. E chi dice di no: non capirà affatto, perché sarà pur fascinosa la poltronissima che fu formigoniana, ma lo è assai meno la compagnia di ventura che vi punta.

Di sicuro si può dire questo: che la scelta di Maroni è dirimente, e sposa l’ardimento fino a sprezzare il pericolo. Se l’obiettivo viene centrato, lui e la Lega chiuderanno il tratto d’un disegno di ventennale ambizione; se viene mancato, sconteranno l’errore peggiore dell’intera epopea autonomista. Un errore senz’uscita di sicurezza per il segretario. Un errore cui il partito proverà a rimediare rivoluzionandosi. Un errore infine che metterebbe in dubbio la tenuta di centinaia d’amministrazioni locali: è vero che il rifiuto dell’alleanza con Berlusconi comportava il rischio dell’affossamento di molte giunte, ma è idem vero che l’eventuale sconfitta di quest’alleanza lo comporterà allo stesso modo.

Dal patto della Befana esce insomma l’immagine d’una Lega che alle regionali si giocherà, assieme alla Lombardia, il suo futuro. Non è un’immagine retorica, è un’immagine realistica. Un’immagine che calza.

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