Del disperato, nobile, coraggioso popolo degli zingari, errabondo nel mondo, discriminato, oltraggiato, ghettizzato, precipitato nell’orrore infinito dei campi di sterminio al pari delle altre “razze minori”, sopravvissuto in parte, disperso ora nei cinque continenti, isolato nei campi delle periferie metropolitane, guardato con quella diffidenza e quei sospetti che ne hanno accompagnato l’esistenza da quando, oltre un millennio fa, lasciò l’India, presunta terra natia, per giungere fra il XIII e il XIV secolo in Europa, inizialmente accolto con disponibilità e rispetto, lo storico comasco Giorgio Cavalleri con il suo “Zingari. Il sacrificio dimenticato” (Fondazione Enaip Lombardia, Acli Como, pp. 132, sip), ci offre un libro prezioso per conoscere un fenomeno affrontato troppo spesso con crudele superficialità.
Malgrado sia stata studiata a fondo, la storia degli zingari e delle loro famiglie principali, i Rom e i Sinti, la loro fermezza, il loro desiderio di libertà, l’insopprimibile aspirazione di “figli del vento” di voler camminare per le strade del mondo, sono conosciuti molto marginalmente. Degli zingari si avverte quello che la propaganda ha seminato nel corso dei secoli, costruendo una muraglia impenetrabile nelle coscienze: corrotti, mendicanti, ladri, guaritori, maghi, sfaccendati, truffatori, inquinatori del libero pensiero. Donne, uomini, bimbi, da tenere lontani, appestati, nemici, puzzolenti, appunto “razza inferiore”.
Pochi sanno – e Giorgio Cavalleri contribuisce a fare chiarezza – che questi “neri d’Europa” per via della loro pelle scura, indubbio “segno di malvagità”, rapitori di infanti, sodali del demonio per i commerci spregiudicati, malefici per le pratiche dell’occultismo, perseguitati anche dalla Chiesa di Roma per molti secoli malgrado parte di essi avesse manifestato vicinanza al cristianesimo, caricati sui bastimenti come vile merce per lidi lontani per non sopportare più la loro disturbante presenza, tuttora senza alcun territorio d’appartenenza, senza leggi proprie, privi di un riconoscimento internazionale, sedici milioni di uomini e donne dispersi nell’immondezzaio dei campi, luoghi infernali, al pari degli ebrei, dei Testimoni di Geova, degli omosessuali, dei malati mentali, dei politici antifascisti, furono sterminati dalla follia del nazifascismo in quella che rappresenta la Porrajmos, la “devastazione” al pari della Shoah per gli ebrei, “il grande gelo”. Il 27 gennaio “Giorno della memoria” potrà essere l’occasione preziosa per una rilettura.
Chi sopravvisse ad Auschwitz, partito anche dai “campi di Mussolini”, ultimi in ordine di tempo quelli della Rsi di Fossoli-Carpi e di Bolzano-Gries, come chi non ebbe timore di prendere le armi per combattere nella Resistenza, in qualche caso perdendo la vita, fucilato o impiccato, è stato dimenticato.
A Norimberga, del resto, nello spettacolare, drammatico processo interalleato ai gerarchi del Reich, il reato contro gli zingari fu derubricato. Non si sostenne la deportazione per ragioni di razza. Pesò piuttosto la “cifra” criminale. Puri e semplici banditi di strada. Nessun esponente della comunità “romanes” riuscì infatti a ottenere un risarcimento a guerra terminata sul rilievo, deviante e antistorico, che il provvedimento poliziesco nulla aveva avuto a che fare con il sangue ma con il tratto di “non socialità”.
Sappiamo che fu esattamente il contrario fin dai tempi remoti. Contò la razza “sporca, animalesca, ammalata”. La discriminazione degli zingari aveva avuto in Germania una sua autentica tradizione come del resto, seppur con gradualità. nell’intero continente. Diffidenza e rifiuto nei confronti delle minoranze sinti e rom avevano preso corpo già molto prima del 1933, l’anno dell’avvento di Hitler al potere.
La politica nazional-socialista contro gli zingari finì per sfociare nel genocidio con altrettanta fermezza di propositi della politica anti-ebraica e, per questa ragione, la persecuzione contro il popolo zingaro rientra a pieno titolo nella traccia dell’Olocausto.
Credo valga la pena di capire meglio come il coltello si mosse dentro la ferita. Le vessazioni contro i Sinti e i Rom in Germania, dopo il fatale 1933, erano proseguite infatti con una netta accelerazione rispetto al trend abituale, sempre tese a violare i fondamentali diritti civili e della quotidianità: affitti elevatissimi e pessime condizioni di vita degli accampamenti e delle abitazioni, razzie della polizia, improvvisi sgomberi dei campi ed espulsioni dai territori cittadini, restrizioni nella concessione dei permessi necessari per il commercio ambulante.
Interessante semmai registrare come, prima dell’avvento del nazismo, le autorità amministrative tedesche e austriache avessero concordemente sostenuto come il metodo corretto per contrastare “la piaga degli zingari” fosse quello di educarli alla stanzialità e all’integrazione solo che, i cittadini, pur consenzienti in linea di principio, avrebbero voluto che ciò avvenisse sempre in un altro Comune.
La Germania era diventata a quel punto la terra che avrebbe definito la sorte di questi “cittadini del mondo”. La loro condizione divenne peggiore anche dal punto di vita giuridico man mano che il regime procedette alla centralizzazione del sistema poliziesco e all’inasprimento della politica razziale.
Anche se gli zingari non venivano mai espressamente nominati, le leggi di Norimberga del 1935 si estesero anche a questa disperata minoranza. Quello che seguì fu una deriva incontrollata e incontrollabile: la creazione di un apposito ufficio centrale contro il vagabondaggio; l’esame sulla biologia della razza; la competenza delle SS e non più dei magistrati e dei tribunali nel giudizio sui loro comportamenti; l’accusa di “asocialità” per la mancanza di un lavoro regolare; l’arresto per motivi di pubblica sicurezza; l’impedimento della prolificazione “in quanto trovati provatamente affetti da tare ereditarie” in grado di mettere a rischio la salute pubblica, il che aveva avuto il sapore di una possibile sterilizzazione; la proibizione del “nomadismo e di tutte quelle persone che imitano il comportamento degli zingari”, l’ordine tassativo di non lasciare in alcun caso il proprio domicilio o il luogo abituale di dimora.
Nel settembre del 1939 era avvenuta la prima deportazione in Polonia di ben trentamila zingari. Era stato il primo passo in direzione della “soluzione finale”. Il 16 dicembre 1942 avvenne il primo Transport verso i forni crematori. Ne seguirono altri, sino a che, nei primi giorni d’agosto del 1944, l’intero “campo zingari” di Auschwitz venne eliminato.
Il sangue dei Sint e dei Rom corse non solo in Germania, ad Auschwitz, Chelmno, Treblinka, Majdanek in Polonia; nel Baltico, in Croazia, in Serbia, in Ucraina, in Crimea, anche nella Risiera di San Sabba a Trieste. Le vittime furono fra le duecentocinquantamila e le cinquecentomila circa.
Neppure dopo la Porrajmos, il mondo “civile” ha saputo capire. Non ha neppure saputo perdonare. Gli zingari (lo erano Charlie Chaplin il grande “Charlot”, Rita Hayworth la fascinosa “Gilda”, lo è Zlatan Ibrahimovic di origini rom bosniaco-croato) perseguitati, perché essi stessi colpevoli del loro destino e della loro diversità. Una formula sbrigativa, feroce e attualissima.
Menzogne che il mondo un giorno dovrà provvedere a dovere rimuovere.
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