La parola “luogo” è priva di spiegazione etimologica. Proprio la parola che usiamo per raccontare dove siamo nati, dove siamo ora e dove vorremmo andare cela a noi la sua origine, la avvolge nel mistero. E’ un piccolo mistero, certo, ma come quelli più grandi, che ci attirano perché sappiamo che parlano di noi, chiede, in primo luogo, di essere ascoltato. Il primo ascolto, semplice, ma ricco di verità se non ci lasciamo travolgere dal suo impeto, è quello che ci suggerisce l’emozione, il sentimento che si (ci) rivela nell’intima reazione ad un incontro. E luogo porta con sé un sentimento immediato di posto dove stare, in quiete, direbbero i fisici, un posto silenzioso, prima che i gesti quotidiani lo riempiano di suoni e rumori, dove sentire il proprio respiro, e il respiro è vita, si legge nella Bibbia. “Dare luogo” a qualche cosa allora, porta con sé un senso di atto creativo; diamo vita ad un evento, ad un’azione, lasciamo spazio a qualcosa di altro da noi, facendoci da parte perché il nuovo cresca. In questi spazi nativi, di silenzio, si incontrano le condizioni favorevoli per meditare, con un po’ di tempo, e così nascono i luoghi dell’anima, i luoghi della mente; si può giungere su questo cammino a forme particolari di luogo come quelli della preghiera, dove sostare e incontrare Dio; Romano Guardini definiva il Rosario “un silenzioso e recondito paese dove poter andare e stare tranquillo”.
Esistono i luoghi dell’arte, della letteratura, dove amiamo recarci guidati dalle menti di persone che li hanno creati, visitati e raccontati a noi dagli spazi chiusi delle loro stanze, basti pensare ai mondi avventurosi di Emilio Salgari o a quelli più cupi di Emily Dickinson. Ma conosciamo anche posti che preferiamo abbandonare e forse dovremmo recuperare nel loro valore primitivo, come i luoghi comuni: Aristotele li definiva così, nella retorica e nella dialettica, perché trattavano di cose che servono ad ogni scienza. I luoghi comuni erano quindi un punto di incontro, dove provare a scambiare qualche opinione, usando un codice noto a tutti, ma nella nostra voglia di novità e originalità cerchiamo di cambiare strada e trovare un posto tutto per noi, che nessuno abbia mai visto e a cui nessuno possa accedere. Forse invece lo abbiamo abbandonato perché lo abbiamo usato male, lo abbiamo imbrattato, lasciato in disordine e non lo riconosciamo più.
Non c’è quindi solo stasi, quiete, nella parola luogo, perché siamo attirati, forse anche di più, dai luoghi inesplorati, da conquistare per spostare sempre un po’ più in là le frontiere del sapere, o siamo chiamati ai luoghi della memoria, da far nostri nel cammino continuo della cultura civile, o a cui tornare qualche volta quando li riconosciamo parte della nostra radice di individui. Anche il movimento è vita e insieme alla quiete si armonizza allora in un ritmo dove l’una lascia spazio all’altra e il tutto ci riconduce alla cadenza del respiro, forse l’unico atto veramente istintivo, che non dobbiamo imparare, come dice Daniel Pennac nel suo ultimo libro “Storia di un corpo”. L’armonia tra abitare un luogo e abbandonarlo vuole allora che se ne porti con sé sempre qualche frammento, che riempia il nostro baule di viaggio, in uno spazio dove però continui a crescere e ben si amalgami con gli altri souvenir fino a diventare un altro luogo che possiamo stavolta battezzare con il nostro nome. Oggi l’equilibrio pende troppo dal lato del movimento e le nostre energie sono però spese a visitare luoghi virtuali, di svago, di lavoro, in una prospettiva di mordi e fuggi che ci fa dimenticare che in fondo “virtuale” è detto di tutto ciò che può avere, ma non ha, realizzazione o manifestazione concreta. E quando la realtà non ha luogo nelle nostre menti, capita di sentire (è avvenuto giusto ieri in un negozio) chi propone di risolvere la crisi politica con un proiettile alla nuca dei governanti; tutto questo all’indomani della strage di Newton, che più viene vista, mostrata, ostentata, più scivola nel limbo del virtuale. Recuperiamo i luoghi dove sostare, per abbassare i ritmi del nostro cuore, del nostro respiro che sempre più assomiglia al ringhio della rabbia. Non è vero che chi si ferma è perduto, qualche volta è semplicemente arrivato.
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