Chansonnier, più che cantautore, per le sue predilezioni francesi, e poi poeta, pittore, disegnatore, scrittore, musicista jazz. Di tutti gli appellativi con cui si potrebbe definire oggi il personaggio Paolo Conte, che tra poco compirà settantasei anni – è nato ad Asti il giorno dell’Epifania del 1937, un anno prima di Adriano Celentano –, forse meno gli si addice proprio quello di cantautore nel senso riduttivo e un po’ picaresco che spesso gli abbiamo attribuito noi italiani pensando a esecutori di brani di successo scritti e musicati da per sé. Paolo Conte è qualcosa di più e di diverso, pure spaziando sempre nel campo privilegiato della musica, perché si perfeziona nel piano generale dei sentimenti, della storia e della cultura, popolare e no.
Le biografie ne indicano la professione di avvocato, svolta in ossequio a una tradizione familiare di giuristi – il padre era un notaio – fino alla metà degli anni Settanta. In realtà, ancora una decina di anni dopo sulla sua vettura giacevano le pratiche di cause civili che continuava a consultare per lavoro, benché ormai fosse già un autore affermato. Dopo essersi fatto conoscere negli ambienti ristretti dei jazzisti, nei primi anni successivi alla fine della guerra, il suo nome tuttavia era cominciato a circolare tra il grande pubblico negli anni Sessanta sul palco del salone delle feste del casinò di Sanremo, pronunciato dai presentatori del Festival canzonettistisco, per lo più abbinato a quello del vigevanese Vito Pallavicini, autore di testi o paroliere che dir si voglia. Ma il loro capolavoro – anche se l’impronta contiana esotica nella sua “semplicità ricercata” del testo è più facilmente riconoscibile – era stata la canzone “Azzurro” affidata, nell’estate del 1968, ad Adriano Celentano. “Azzurro”, in breve, divenne una sorta di inno nazionale per più di una generazione (i sogni, il treno dei desideri, che va sempre all’incontrario, l’Africa in giardino tra l’oleandro e il baobab, le silenziose domeniche trascorse all’oratorio senza neanche un prete per chiacchierar… ). Ancora, di Paolo Conte, erano “Mexico e nuvole”, che fu la colonna sonora dei mondiali di calcio del 1970, cantata da Enzo Jannacci, come “Bartali”, che è del ’79, “Onda su onda” e “Genova per noi”, rispettivamente del ’74 e del ’75, riprese da Bruno Lauzi; e, ancora in quegli anni, “La Topolino amaranto”, del 1975, “Avanti bionda” e “La fisarmonica di Stradella”, tra il ’75 e il ’76, e nell’81 la famosissima “Via con me”, che cantò Roberto benigni…
Tutti questi brani Paolo Conte li cantò in un concerto nel Varesotto – uno dei primi suoi concerti in assoluto – tenuto al cinema Italia di Laveno (il locale non esiste più da parecchi anni). Era la sera di martedì 6 aprile 1982: il biglietto di ingresso costava quattromila lire, posti disponibili seicento. A invitarlo era stata la giornalista, e prima direttrice del nostro periodico on line, Alma Pizzi, che in quell’epoca era assessore alla cultura del comune lavenese. Paolo Conte arrivò in auto – una Bmw bianca – direttamente da Asti e passò il lago con il traghetto. Dopo il concerto volle con sé gli amici, e i cronisti, in pizzeria, dove si fece notte fonda parlando dei massimi sistemi.
Fu in quella occasione che Conte presentò uno dei suoi pezzi più famosi: “Diavolo Rosso”, la ballata jazzistica, quasi improntata sul ritmo indiavolato delle pedalate, dedicata al campione ciclistico dei primi del Novecento e pioniere dello sport delle due ruote, Giovanni Gerbi, di Asti. Non era solo un omaggio a un concittadino – la canzone “Diavolo Rosso” era la più importante dell’album “Appunti di viaggio” che da lì a qualche settimana sarebbe stato lanciato –; era anche un omaggio alla Bassa del Piemonte, o alla piemontesità in genere, un quadro – nel senso letterale di dipinto – di un ambiente e di un’epoca: “Quelle bambine bionde / con quegli anellini alle orecchie / tutte spose che partoriranno / uomini grossi come alberi / che quando cercherai di convincerli / allora lo vedi che sono proprio di legno…”. E poi: “Guarda le notti più alte / di questo Nordovest bardato di stelle / e le piste dei carri gelate / come gli sguardi dei francesi / un valzer di vento e di paglia / la morte contadini / che risale le risaie / e fa il verso delle rane…”. E ancora: “Voci dal sole altre voci / da questa campagna altri abissi di luci / e di terra e di anima niente / più che il cavallo e il chinino / e voci e bisbigli d’albergo: / amanti di pianura / regine di correiere e paracarri / la loro, la loro discrezione antica / è acqua e miele…”. E ancora: “Girano le lucciole / nei cerchi della notte / questo buio sa di fieno e di lontano / e la canzone forse sa di ratafià… ”.
Pochi pezzi musicali, pochi testi sanno evocare con così tanta forza ricordi, immagini, emozioni. Pare di esservi in quelle lande della Bassa piemontese, pare di esservi vissuti, di vivervi ancora.
Le canzoni, in un’esuberanza di parole sdrucciole, così care alla musicalità contiana si diffondevano. Il concerto di Laveno sancì anche un legame di Paolo Conte con Varese e con il Varesotto. L’anno seguente alla venuta al cinema Italia lo chansonnier fu all’Impero (non ancora MIV). Memorabile, poi, un suo concerto di fine estate alla XIV Cappella e un ultimo concerto in occasione dell’apertura del teatro Apollonio. Intanto Paolo Conte si affermava: in Francia teneva – e avrebbe tenuto – concerti al Grand Rex, nei pressi dell’Operà, o al Palais des Congres.
Mentre usciva dal cinema Italia per accompagnare gli amici in pizzeria aveva detto a tutto il pubblico: “Vi voglio bene. Grazie di essere qui. Ma se mi volete ancora, chiamatemi: io vengo a cantare anche in casa vostra o in giardino in una sera d’estate”.
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