Una domenica pomeriggio di primavera chiesi a Maria se voleva venire a prendere un tè con me al bar davanti al lungolago da cui si vede bene il porto di Laveno con in traghetti che vanno avanti e indietro, e sullo sfondo la casa di riposo. Il porto di Laveno per me è più bello di quello di Portofino, perché non ci sono ancoratati i panfili dei miliardari ma modeste barche a vela e a remi. Mi rispose che era felice di poter uscire in una bella giornata di sole al lago: l’azzurro del cielo riflesso nel lago ispira la pace del cuore.
Così rimanemmo in compagnia a goderci il tramonto, senza scambiarci tante parole, stavamo bene insieme. Non veniva mai a Laveno da Mombello perché non aveva l’auto ma, quando lavorava passava sempre di lì a piedi tutti i giorni due volte al giorno per recarsi alla Ceramica Lago. Io ne fui molto gratificato, più di lei, mi sentivo il cuore contento.
Era una signora di circa settant’anni che curavo per un tumore al pancreas da circa tre mesi ed era peggiorata negli ultimi giorni. A fatica era ancora in grado di camminare e nonostante la dose massiva di analgesici era ancora in grado di sostenere una conversazione. Spesso mi domandavo che cosa potesse far piacere a un ammalato, e mi risposi che era di sentirsi bene come una persona normale. Infatti avevo notato nella mia lunga esperienza che anche i malati terminali, se stanno bene anche pochi giorni prima di morire non pensano tanto alla malattia. E quindi quella passeggiata e il tè al tavolino all’aperto con una vista incantevole del lago, delle Isole, del Mottarone e del Monte Rosa pensavo che potessero avere un effetto positivo sul suo morale maggiore di un antidepressivo. Volevo condividere con lei un momento bello della vita, che rimanesse scritto nel suo libro, perché poi sarebbe deceduta dopo qualche giorno.
Era una occasione da non lasciar perdere. Certo non con tutti i pazienti terminali posso uscire al bar sul lungolago. Ma questa signora mi faceva tenerezza e compassione perché era sola senza marito, figli e parenti. Aveva un’amica vicina di casa che l’accudiva.
Mi ricordo che una mattina – andavo a visitarla tutti i giorni – le comprai un vaso di orchidee. Dal comò tolsi tutti i numerosi farmaci, flebo e materiale di medicazione e posi i fiori al loro posto con un bel sottovaso. “Maria – dissi – i fiori ci sono perché li possano ammirare i vivi e non i morti. Li guardi e pensi alla bontà del Signore che ce li ha donati a memoria della sua infinita misericordia, così che possiamo pensare a quanto è bello il creato e a quanti doni meravigliosi abbiamo ricevuto”. Ne fu molto contenta e anch’io. Salvo poi ricredermi quando Alma partì per il Paradiso. Ora non le mancano mai dei fiori, i più belli, sulla sua tomba.
“Non fiori ma opere di bene” qualcuno scrive come epitaffio sull’annuncio funebre. Vorrei correggere e dire: offrite dei fiori che siano opere di bene. Vado a visitarla tutti i giorni, per ringraziarla del grande amore per me e perché i fiori glieli portavo a casa spesso, soprattutto durante le ricorrenze del compleanno e del nostro matrimonio e anche quando volevo dirle che ero sempre innamorato. Con un mazzo di fiori inaspettato alla moglie si rompe la routine di un rapporto magari un po’ monotono.
Maria, fu sorpresa e molto felice delle orchidee. Mi confidò che nessuno le aveva mai portato in omaggio dei fiori. Così riflettevo che basta poco per fare felice una persona ammalata che con le cure palliative gode di un temporaneo benessere. Una buona parola, un gesto d’affetto, un vaso di fiori. E concludevo che basta molto poco far felice la propria sposa.
***
Un pomeriggio viene in ambulatorio padre Pedro: “Sono qui perché me lo ha ordinato il padre spirituale. L’altro giorno sono stato morsicato da un cane dietro al ginocchio sinistro e la ferita sta facendo infezione”. Lo rimprovero perché avrebbe dovuto entro le ventiquattro ore fare la profilassi antitetanica, senza aspettare l’autorizzazione del superiore (che strana concezione dell’obbedienza). In ogni caso lo visito e lo medico e lo congedo con la prescrizione dell’antitetanica.
Il giorno dopo arriva con l’antitetanica, effettuo le due iniezioni, poi gli medico la ferita: va meglio. Mi dice che soffre di emicrania, ha effettuato anche la Tac che è risultata normale. “Quando ho visto tutte quelle foto del mio cervello le ho ritagliate e le ho spedite ai miei amici dicendo che avevo cervello, alcuni l’hanno presa sul ridere altri no. A una signora che mi chiedeva una mia foto inviai quella della Tac del cervello per invitarla all’interiorità”.
Simpatico questo giovane missionario dello Spirito Santo. Quella sua battuta sulla Tac mi mise di buon umore, tanto che quando poi qualche mio paziente mi chiedeva di fare una Tac del cervello per escludere qualche grave patologia rispondevo sorridendo che comunque non misurava l’intelligenza né vi si poteva trovare la sede dell’anima…
Noi ci prendiamo troppo sul serio, ma tutto è relativo davanti all’immensità e all’eternità di Dio. Anche la tecnica più evoluta della diagnostica per immagini. Come la Tac.
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