Dei registi di cinema italo-americani – pensiamo a quelli della seconda generazione: da Coppola a Scorsese; da Cimino a De Palma – Frank Capra (1897-1991) è stato il più americano di tutti. E ciò benché egli, a differenza degli altri, fosse nato in Italia, a Bisacquino, a meno di un centinaio di chilometri da Palermo, e si fosse trasferito negli Usa insieme con la famiglia agli inizi del Novecento, quand’era bambino. Americano a tutto tondo, dunque, perché degli yankee – e soprattutto di coloro che nel grande paese d’Oltreoceano erano stati accolti come nuovi cittadini – meglio di altri “autoctoni” ha saputo interpretare lo spirito, quella che si dice la way of life, ma soprattutto la cultura profondamente democratica e le speranze.
In una sua autobiografia “Il nome sopra il titolo” (The name above the title. An autobiography”), pubblicata da noi dall’editore Lucarini una quarantina di anni fa, Capra ha raccontato con semplicità, ma con orgoglio, da vecchio zio d’America, quanto gli era capitato, dopo tanto impegno e tanti sacrifici; e cioè di essere arrivato – a meno di quarant’anni – a poter indicare il proprio nome sopra il titolo del film, quasi fosse un marchio, un’indicazione di sicurezza e di garanzia per lo spettatore.
Nei durissimi anni Trenta il regista Frank Capra era già un grande di Hollywood. Sono ben tre gli Oscar che in quel periodo può annoverare per la miglior regia: nel 1935 con “Accadde una notte” (It happened one night), il mitico film interpretato da Clark Gable e Claudette Colbert, entrambi premiati quali miglior attore e migliore attrice protagonisti; nel 1937 con “È arrivata la felicità” (Mr Deeds goes to town), il favoloso film in cui Gary Cooper fa la parte di un amabile e disinteressato “sempliciotto”; nel 1939 con “L’eterna illusione” (You cant’t take it with you”), il film che vide tra gli interpreti altri grandi di Hollywood segnati nel taccuino di Capra: Jimmy Stewart, Jean Arthur, Lionel Barrymore e che, spesso, specie in occasione delle feste natalizie – perché anche questa è una storia di buoni e corretti sentimenti, dove il bene trionfa sulle cattiverie e sulle meschinità umane –, viene trasmesso dalle nostre reti televisive. Un altro Oscar Frank Capra lo ottenne nel 1943, ex aequo con John Ford, per avere girato insieme a Anatole Litvak il miglior documentario: “Prelude to war”. Erano gli anni di guerra e Capra, da buon americano, lavorava per il proprio paese. Il documentario fa parte della serie “Why we fight”, interrotta solo dall’intermezzo – anch’esso un film molto conosciuto e amato – di “Arsenico e vecchi merletti” (Arsenic and old lace) nel 1944.
Dopo la guerra le filmografie parlano di un lento declino dell’opera di Capra, se si fa eccezione per “Angeli con la pistola” (Pocketful of miracles), del 1961, film con Glenn Ford e Bette Davis e in cui compaiono anche Peter Falk, Thomas Mitchell, Ann-Marget. Si tratta ancora di una favola natalizia in cui un gruppo di gangster – sono gli anni del proibizionismo – aiuta una modestissima venditrice di mele (Bette Davis) a trasformasi in una nobildonna che non può sfigurare dinanzi alla figlia che ha studiato all’estero, di ritorno e in procinto di sposare un conte spagnolo. Frank Capra rifà sé stesso, ripropone i suoi temi di solidarietà e di speranza. Ma sono già gli anni Sessanta e tante cose stanno cambiando, anche negli Usa.
È vero però che – trent’anni prima – negli anni del New Deal roosveltiano e della ripresa dopo la grande crisi, le opere del regista italo-americano avevano saputo cogliere tutto un altro aspetto del mondo e delle cose. Sia dal punto di vista politico (si pensi a “Mister Smith va a Washington” – Mr Smith goes to Washington, 1939, altro film memorabile con James Stewart nella parte di un inopinato senatore capo boyscout e amico degli animali) sia da quello della pura narrazione.
È il caso, però più vicino rispetto agli anni del New Deal, di “La vita è meravigliosa” (It’s a wonderful life”), che è del 1946. Ed è questa, in verità, la favola natalizia più famosa di Frank Capra, quella che lo fa avvicinare a un Charles Dickens del cinema, specie per i richiami narrativi al famoso “Canto di Natale” (A Christmas Carol), così caro alla cultura e alle tradizioni britanniche, alla conversione e alle visioni del personaggio Ebenezer Scrooge. La storia è quella dell’onesto George Bailey (James Stewart) che, sull’orlo della bancarotta, vuole suicidarsi. Lo salva l’ “angelo di seconda classe” Clarence (Henry Travers) venuto sulla terra per procurarsi le ali con una buona azione. Il film è semplice nella struttura narrativa ma complesso nei suoi significati. Quando George-James scopre come sarebbe diverso (e peggiore) il mondo alternativo senza di lui, torna in sé e ritrova il bene della vita, e il valore dell’amicizia.
Il film è bello e importante (il critico Paolo Mereghetti lo giudica con quattro asterischi, pari al capolavoro) perché lo spettatore intuisce quanto fossero sinceri i valori che Frank Capra aveva voluto trasmettere. Dietro c’era un modo di pensare – anche politico, se si vuole – un modo di essere. A proposito di “La vita è meravigliosa” il regista ha scritto nella sua autobiografia: “Un film per dire ai depressi, agli sconfortati, ai disillusi; ai barboni, ai poveracci, alle prostitute; a quelli che stavano dietro le sbarre di una prigione o oltre la cortina di ferro che nessun uomo è un fallito! Per dimostrare a chi è nato con difetti fisici o mentali, a quelle vecchie sorelle condannate allo zitellaggio e a quei vecchi figli condannati a rimanere senza istruzione, che la vita di ogni uomo confina con la vita di molti altri. E se quell’uomo non ci fosse creerebbe un vuoto terribile… Un film che diceva ai diseredati, agli spiantati, ai poveri: ‘Su la testa amici! Nessun uomo che abbia un amico è povero. Se ne ha tre è ricco sfondato’…”. Grazie, vecchio zio Frank.
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