Ci sono auguri e auguri. Ma alcuni sono più attesi di altri. Perché sono speciali. Per me, ma non solo per me, lo sono ormai da anni quelli natalizi dell’amica Mavi, più che abbreviazione, vezzeggiativo, questo, di un nome bello come la persona che lo porta: Maria Vittoria.
Non è più una ragazzina Mavi, anche se la voce è ancora giovane e non incrinata dal passare del tempo.
È giovane anche lo spirito di Mavi, che butta in allegria e ironia intelligente ogni eventuale scherzo della vita, un banale incidente quotidiano come un rovescio di più lungo corso.
Per tempo, dunque, agl’inizi di dicembre, ogni anno, Mavi fa arrivare agli amici i suoi biglietti d’auguri. Ma più che biglietti sono veri e propri libretti. In copertina splendide riproduzioni fotografiche della miglior pittura di tutti tempi, incorniciate su carta rossa natalizia, o carta Varese. All’interno, scritti con grafia d’altri tempi, una grafia ferma ed elegante, o riprodotti nei migliori caratteri di stampa, affida alle pagine bianche ricordi o personali riflessioni. Ma più spesso si tratta di racconti, poesie, brani tratti dai migliori autori della nostra letteratura o dai più interessanti saggisti di oggi. Ho ricevuto biglietti con passi di opere di Luigi Santucci, poesie di Giovanni Pascoli, pensieri di Monsignor Ravasi o di padre David Maria Turoldo.
Il fatto stupefacente è che Mavi, con la sua adorata figlia Rosy, inizia da metà estate a scrivere, fotografare, incollare, inventarsi sempre nuove idee per questi suoi biglietti che spedisce a centinaia di persone. Amici di una vita, ma anche amici speciali, che non devono sentirsi soli il 25 di dicembre: da anni Mavi, tramite la collaborazione di alcuni cappellani, fa pervenire i suoi preziosi biglietti ai detenuti di più d’un carcere. Per qualcuno è stato spesso l’unico biglietto natalizio ricevuto ed è rimasto per sempre tra le cose care. Conservato come una reliquia tra gli indumenti del guardaroba minimo di chi sta scontando la sua lunga pena. È per questo motivo che da anni Mavi non manca l’appuntamento: e da quando una caduta le ha reso più difficile scrivere a mano ha risolto affidandosi in parte al taglia e incolla del computer.
Tra i biglietti di quest’anno (ben tre, perché Mavi sa che i suoi amici li conservano) ce n’è uno che ricorda un bel brano letterario di un pittore di casa nostra: Giuseppe Montanari. È un brano noto per i varesini che conoscono almeno un po’ la storia della loro città e dei loro artisti e che riporta ad anni belli per il pittore, quelli dell’innamoramento per Varese e per la sua futura sposa, la Nini, che qui risedeva.
Ricordate? “…una bella mattina di maggio del 1919 scesi alla stazione di Varese. Dal piazzale tra un carosello di tranvai bianchi mi si presentò la corona magnifica delle montagne opulenti di verde, di un verde turgido raro e la visione mistica del Sacro Monte e del Campo dei Fiori, nel fulgore del sole di primavera. Fu una festa indescrivibile l’ascesa alla prima cappella sul rimorchio a giardiniera aperta del tramvaino bianco che scampanellava e fischiava allegro, scarrocciante sulle rotaie, come un pazzerellone, fra ville e giardini affollati di piante. Così conobbi il largo stradone che sciorina le interessantissime cappelle lungo il suo percorso fino al Santuario; le funicolari che si inerpicavano tra il verde sui dossi di Santa Maria del Monte e del campo dei Fiori, la vista incantevole della vasta pianura lombarda disseminata di paesi, i sette laghi, la catena maestosa del Monte Rosa, le montagne della confinante svizzera, le tre valli varesine, l’aria balsamica che tutto avvolge e vivifica (…). Così restai a Varese e vi divenni suo affettuoso cittadino d’elezione, così amai questa plaga benedetta da Dio, dove la natura innalza al Creatore il suo più intenso inno di gloria e dove è peccato mortale ogni mancanza di rispetto e ogni delittuoso attentato alla integrità della sua armoniosa bellezza”.
Montanari scrisse questo brano nel ’23 e da allora molte cose sono accadute e stanno accadendo anche nella nostra terra, nel bene e nel male. Grazie Mavi, per avermi messo sotto gli occhi queste parole. E grazie ancora perché ne ho trovate altre di preziose tra i tuoi biglietti natalizi degli scorsi anni. Sono parole di Turoldo, una riflessione sui nostri tempi, sul bisogno di un ritorno alla semplicità e povertà più attuale che mai, anche se forse ora, senza colpa o merito, da certi antichi tempi ci sentiamo un po’ meno lontani: “Conservo tra i più belli il ricordo dei miei Natali da povero, nel Friuli, quand’ero ragazzo, e conducevo al pascolo le pecore che mi affidavano quelli del paese perché le custodissi in cambio di un po’ di lana e di latte. Ero un fanciullo felice. Che contrasto con lo sfavillio, lo scialo, lo svolazzare di angeli da vetrina a vetrina (…). Per salvarmi da queste tristezze natalizie moderne, devo dunque pensare al natale della mia infanzia, austero e povero. Dalla Carnia venivano giù gli anziani e i poveri, che passavano di porta in porta, recitando il “Padre Nostro”. Sembravano gente favolosa. Mia madre, per quanto poverissima – eravamo la famiglia più povera del paese – dietro la porta di casa teneva sempre una scodella di farina e non so neanche come la riempisse, perché le madie erano sempre vuote (…). Se è vero che questa nostra umanità è questa che viviamo e vediamo, così spoglia e povera di valori e miserabile, mi domando se non sia questa l’umanità in cui Cristo tenterà di nuovo di incarnarsi, perché è la condizione umana il metro della propria miseria”.
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