Per lui, un ragazzo di appena diciassette anni, l’ultimo Natale di guerra, il lunedì 25 dicembre 1944, resta nel ricordo un’immensa distesa bianca e un casolare sperduto in quel deserto di neve con due donne che si sbracciavano da lontano, qualche centinaio di metri, per attirare la sua attenzione e quella del suo compagno di scuola e, da qualche mese, anche di lager. Il loro era un campo di concentramento di “lavoratori coatti” nella provincia di Torun, la città polacca dove studiò Copernico.
Il Natale fu anche per quei due ragazzi, lontani dall’Italia, dai familiari, dagli amici, in mano agli aguzzini, un giorno di festa; Santo Stefano un giorno triste e grigio come gli altri. Usciti dal campo di lavoro che non aveva recinzioni, i due giovani italiani iniziarono una passeggiata in quel paesaggio sconsolato, parecchi gradi sotto lo zero, non immaginando la straordinaria avventura che sarebbe loro capitata.
Quelle due donne che si agitavano, desideravano rivolgersi proprio a loro. Sorpresi e incuriositi si diressero verso il luogo da cui provenivano le voci e i gesti e quando furono finalmente vicini, vennero invitati a entrare nella loro casa. Una volta dentro, fu loro offerta subito una fetta di torta e furono invitati anche a sedersi mentre veniva preparato qualcosa di caldo.
Ai due giovani era sembrato di essere diventati di colpo, come per magia, cittadini di un altro mondo, un’entità irreale, assolutamente impensabile in quelle condizioni, tanto da domandarsi il perché di quell’invito e perché era stato rivolto proprio a loro.
La risposta non tardò ad arrivare perché fu loro spiegato che quella festosa accoglienza faceva parte di un’antica tradizione popolare rispettata anche in quel tragico periodo dell’occupazione nazista. In breve i due giovani, prigionieri del terzo Reich, per quelle donne erano i “pellegrini” che il giorno di Natale, visti per primi com’era accaduto, dovevano essere accolti in quel modo ospitale perché una leggenda polacca voleva che fossero stati mandati direttamente dal Bambino Gesù.
Bevuto il tè, iniziò una lunga conversazione con molte domande da parte delle donne: chiesero ai “pellegrini” se fossero cattolici (che per loro era la cosa più importante), quale fosse la loro città di provenienza, quale il loro mestiere in Italia, qual’era la vita nel lager.
Terminata la raffica di domande a cui i due giovani avevano risposto puntualmente (“siamo di Genova, siamo stati rastrellati per caso a Sestri Ponente il 16 giugno 1944 da militari della Wermacht che catturarono nella retata mille operai del Cantiere Ansaldo e anche noi due che nel primo pomeriggio stavamo tornando da scuola”), fu la volta dei “pellegrini” a porre le domande.
Le due donne erano madre e figlia. Il padre era scomparso, né si sapeva dove fosse finito. Di certo si trovava a Varsavia a visitare uno zio ammalato in un fatale giorno del 1939 quando i tedeschi avevano già occupato la Polonia e la capitale. Da allora non si era più saputo nulla di lui. Ucciso in uno scontro a fuoco contro i nazisti? Deportato in un campo di sterminio? Fucilato? Le due donne mostrarono ai “pellegrini” la sua foto incorniciata scattata poche settimane prima del suo ultimo viaggio. Sembrava un uomo sui sessant’anni, baffuto, sorridente. “Mia madre s’illude ancora di poterlo riabbracciare -aveva confessato la ragazza – ma non credo ci siano più speranze, sono trascorsi cinque anni da allora”.
Per i due “pellegrini” i mesi di cattività erano soltanto sei da quel drammatico giorno in cui si erano trovati a bordo di un treno merci piombato diretto verso una destinazione sconosciuta, schiacciati in mezzo ad un’umanità dolente, lavoratori, giovani e anziani, fidanzati e padri di famiglia. Tappa d’arrivo, dopo le soste a Milano e a Innsbruck, era stata Gotenhaven (la Starogard polacca) la città dei cantieri navali vicino a Danzica, dopo un viaggio segnato dal pianto, dalla fame, dalla sete.
Siccome i due giovani italiani non avevano arte né parte (erano studenti) e avevano un fisico robusto, vennero dirottati per loro fortuna – si fa per dire – a fare i servi presso un piccolo proprietario prussiano collaborazionista (peggio dei nazisti) che si chiamava Hugo Wraase e chissà quale sarà stato il suo destino, di sicuro poco allegro, lui che portava con tanta fierezza il distintivo nazista, orgoglioso per il figlio che era nelle SS e che ogni tanto tornava a casa in licenza nella sua lugubre divisa nera.
All’approssimarsi dell’Armata Rossa (“Ivan” per i tedeschi), Hugo era stato mobilitato assieme ad altri anziani dei dintorni in un Raggruppamento paramilitare che avrebbe dovuto vigilare nientemeno che sulla sicurezza del territorio chiamato pomposamente Volkssturm. Anche lui comunque con la moglie, la nuora, un bimbo appena nato, dovette alla fine sloggiare da quella proprietà terriera rubata ai polacchi, caricando tutto il possibile su un carro trainato da un cavallo, contribuendo a formare un’interminabile fila di carri contadini diretti “nach Berlin”, illusi di poter trovare nella capitale del Reich la salvezza e non le macerie fumanti.
Per i giovani italiani il massacrante lavoro dall’alba al tramonto a raccogliere patate e pomodori sotto un sole cocente, incalzati dalla sferzante violenza dei collaborazionisti prussiani, era finito a settembre.
Chiusa la parentesi “agricola”, era venuto il lager. Se dai contadini, lavorando come somari, avevano però mangiato regolarmente, nel lager dove il compito era di costruire i Panzergraden, fosse anticarro, a venti gradi sottozero al riparo di una coperta con fenomeni continui di dissenteria e di assalti di pidocchi, il cibo era pessimo. Brodaglia e pane nero umidiccio, simile a del fango, con l’aggiunta di due fettine di pessima margarina e una specie di salame che faceva schifo.
I due “pellegrini” avevano sempre fame e si può immaginare con quale spirito avessero accettato la torta dalle due donne soprattutto quando fu detto loro di prenderne un’altra fetta.
Il colloquio nella povera casa andò avanti ancora per qualche ora. Fuori aveva ripreso a nevicare. C’erano “i messaggeri di Gesù Bambino” e non c’era ragione che se ne dovessero andare via tanto in fretta ma il pericolo esisteva eccome: se i guardiani del campo si fossero accorti dell’assenza dei due italiani oltre l’orario consentito la punizione sarebbe stata terribile.
Nel tardo pomeriggio venne l’ora dell’addio. La padrona di casa abbracciò i due giovani, uno per uno e, piangendo molto commossa, fece sulla loro fronte come era in uso il segno della croce.
Il rito del Natale si era definitivamente compiuto. La donna si era voltata, aveva fatto il gesto di superare il portone di casa ma all’ultimo aveva avuto come un sussulto, si era nuovamente girata verso di loro dicendo: “non mi ringraziate. Sono io che vi devo ringraziare perché per noi è come se fosse venuto in visita Gesù Bambino”.
In cuor suo sperava, e con lei la figlia, che dopo il “miracolo” dei messaggeri natalizi, un giorno avrebbe potuto rivedere suo marito.
P.S. Uno dei due ragazzi genovesi era Ibio Paolucci, giornalista politico e giudiziario de l’Unità, che mi ha raccontato la storia. Dopo la liberazione dal campo di lavoro, nel gennaio 1945 da parte dell’Armata Rossa, Paolucci seguì nel viaggio di ritorno, prima a ritroso verso l’Urss, e poi verso l’Italia, lo stesso itinerario descritto da Primo Levi nella “Tregua”. Giunse alla Stazione Centrale di Milano, con il suo compagno di scuola, nel settembre 1945. A Genova poté riabbracciare don Andrea Gaggero, il sacerdote del suo quartiere di via Sparta, partigiano combattente, medaglia d’argento della Resistenza italiana, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz. Don Gaggero, ridotto allo stato laicale dalla Sacra Rota dopo la denuncia del cardinale Siri per aver aderito all’Associazione “Partigiani della Pace”, fu il promotore nel 1951 con Aldo Capitini della Marcia della Pace Perugia-Assisi.
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