Il 1944 fu un anno tragico anche per la nostra città: Varese era occupata dalle truppe tedesche; venne bombardata due volte dagli aerei alleati; i fascisti, tornati al potere con l’aiuto dei nazisti dopo il crollo militare si comportavano in quell’ultima ora estrema con sanguinaria brutalità. Alla guerra e alla lotta fratricida si aggiungeva carestia, la fame, la paura. Mancavano il pane, la pasta, il burro, i generi di prima necessità, gli indumenti, persino il sale; le case erano fredde; parimenti le scuole, gli uffici, le fabbriche erano prive di riscaldamento; le strade erano oscurate e, d’altronde, la sera era proibito uscire dalle abitazioni; si circolava a piedi, in bicicletta e con i tram perché le automobili erano ferme per mancanza di carburante. Nel buio del totalitarismo che avvolgeva l’intera Europa cominciava però ad emergere tra la gente un sentimento nuovo di libertà, la convinzione che soltanto in una società aperta sarebbe stato possibile un futuro di speranza.
I giovani dell’Azione Cattolica avevano appreso nelle sagrestie e negli oratori principi e valori che erano in radicale contrasto con le idee della dittatura e maturarono una scelta morale che trovò espressione nella resistenza. Le riunioni del primo, sparuto gruppo di democratici cristiani si svolgevano tra le discrete mura del convento dei Cappuccini all’Ungheria, località ancora isolata dal contesto urbano, fuori mano, relativamente al riparo dalla vigilanza della polizia fascista e dall’insidia dei delatori. Varese era, in quel periodo, un crocevia di salvezza per gli oppositori del regime e soprattutto per gli ebrei che, in nome di assurde quanto spietate teorie razziste, erano selvaggiamente braccati come bestie pericolose.
Il clero, con l’appoggio di molti laici e la solidarietà passiva della popolazione, riuscì ad aprire misteriose ma efficaci vie di salvezza per questi disgraziati italiani verso la vigilantissima ma non inviolabile frontiera svizzera, al di là della quale vi era speranza di vita e di salvezza. La attraversò, con l’aiuto del parroco di Cantello, anche la figlia del duce, Edda, in rotta con il padre, rimasto indifferente alla vendetta tedesca che si era abbattuta sull’ex ministro degli esteri Galeazzo Ciano, rispettivo marito e genero, che si era schierato con i congiurati del 25 luglio 1943 provocando la caduta del regime. Non tutti i fuggiaschi di religione israelita riuscivano però a sconfinare perché respinti dalle guardie svizzere, non immuni dal pregiudizio razzista o perché traditi dalle guide che, dopo aver intascato l’oneroso compenso pattuito li consegnavano ai militi fascisti per aggiungervi la taglia di cinquecento lire promessa per ogni ebreo consegnato.
Tra i partecipanti agli incontri segreti nel convento francescano vi era anche il giovane Mario Ossola, di appena ventuno anni, studente in medicina, che sarebbe diventato, nel dopoguerra, sindaco del Capoluogo. Il gruppo non si limitò alla propaganda degli ideali democratici e alla diffusione della stampa clandestina di opposizione per illuminare le coscienze, ma sviluppò anche coraggiose iniziative non violente, come la liberazione di un bambino ebreo dato in custodia dai tedeschi alle suore della Casa San Giuseppe che fu prelevato con il pretesto di un intervento chirurgico presso l’ospedale civico e restituito alla libertà. L’attività clandestina del gruppo non poteva, alla lunga, sfuggire all’attenzione della polizia fascista che, difatti, arrestò l’intero comitato democratico cristiano. I militi irruppero nella casa dove Ossola viveva con la famiglia in via Cavour e lo incarcerò con gli altri, tra cui Carlo Macchi fratello del futuro segretario del Papa Paolo VI, nel carcere dei Miogni. Fu poi trasferito a Como e successivamente consegnato ai tedeschi nella prigione milanese di San Vittore dove fu raggiunto dall’ordine di deportazione in Germania.
Con altri detenuti politici fu caricato in un vecchio autobus snodabile, di quelli con motrice e rimorchio, per il viaggio, verosimilmente senza ritorno, verso il “lager”. Qui avvenne l’impensabile: Mario si accorse che il “soffietto” di congiunzione tra i due corpi dell’automezzo si stava sfilacciando e, con pronta determinazione, allargò la fessura di quel tanto da permettere di gettarsi fuori sulla strada, insieme ad una compagna di sventura, prima che i tedeschi potessero accorgersi e intervenire. Prestò le prime cure alla donna che nel volo aveva riportato alcune fratture andando a sbattere contro un paracarro di granito; poi, con mezzi di fortuna e con infinita circospezione, ritornò a Varese rifugiandosi presso gli zii, titolari del noto studio fotografico Colombo di via San Martino, nella loro più appartata abitazione di viale Sant’Antonio.
Era la vigilia di Natale del 1944 e l’indomani mattina mamma e papà Ossola, riabbracciando il figlio, ricevettero il più bel regalo natalizio della loro vita. Ma per Mario l’appuntamento con la morte era solo rinviato: datosi alla macchia, il futuro sindaco incappò nuovamente, proprio nei giorni in cui si compiva la liberazione di Milano dove si era nascosto, in una pattuglia tedesca che senza tanti complimenti lo allineò, insieme ad altri partigiani catturati, davanti al muro di un palazzo per l’immediata fucilazione. Nella metropoli paralizzata dalla paura, con porte e finestre delle case sbarrate, il giovane Ossola raccomandò l’anima a Dio: sfinito dalla tensione si appoggiò involontariamente contro il portoncino d’ingresso dell’edificio che aveva alle spalle. Accadde l’incredibile: alla leggera pressione del corpo l’uscio si aprì e, mentre i mitra crepitavano, Mario trovò ancora una volta la via della salvezza.
Per quarant’anni esercitò scrupolosamente la professione di medico; divenne sindaco di Varese e direttore del Consorzio Provinciale Antitubercolare. Fu al servizio disinteressato dei cittadini a cui fece migliaia di radiografie finché un giorno volle farne una anche a sé stesso, incallito fumatore. Era un diagnostico infallibile e subito individuò il terribile male che lo aveva colpito. Si sottopose a una difficile operazione al polmone ma non si fece illusioni sulla sua sorte e profeticamente indicò il tempo di pochi mesi che ancora gli restava da vivere. Morì nel febbraio del 1986 a soli sessantuno anni. Questa volta la morte non gli aveva concesso un’ulteriore dilazione.
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