Parlare di Clark Gable oggi, a più di mezzo secolo dalla scomparsa avvenuta (quasi) sul set quando non aveva ancora sessant’anni, potrebbe sembrare un’escursione nel cinema della protostoria. Gable (anglicizzazione, pare, del cognome di origine germanica Goebbles, che in italiano in una traduzione molto, molto approssimata significherebbe “mangia”) era nato nel 1901 in una cittadina dell’Ohio. Il suo primo e unico Oscar come attore protagonista risale infatti al 1935 per “Accadde una notte” (It happened one night) del grande Frank Capra, che quell’anno fece incetta di premi: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura, migliore attrice protagonista (Claudette Colbert)…
La parola “protostoria”, dunque, è solo un modo di dire. Nel caso, non è certo un’assimilazione verso l’archeologia cinematografica, perché negli anni Trenta Hollywood era già una mecca e mostrava con orgoglio le sue regine e i suoi re (e Gable tale era considerato). È solo un fatto di generazione: Clark Gable, nell’immaginario italiano, alla pari di Ronald Colman (nato nel 1891), di Gary Cooper (1901) e soprattutto di Fred Astaire (1899) e Ginger Rogers (1911), era per esempio un attore mitico per uomini come il nostro vate del cinema Federico Fellini, nato nel 1920, che da liceale ne ammirava l’immagine nelle locandine esposte fuori del cinema Fulgor, lungo il corso d’Augusto a Rimini (il Fulgor esiste ancora oggi e la città romagnola – a differenza di altre che i cinema li chiudono per aprirvi supermercati – ne vuole fare una specie di luogo sacro).
La filmografia di Gable – partendo dagli inizi degli anni Trenta – è molto vasta. Fu allora che il nostro cominciò a sfoggiare, davanti alle maestose orecchie a sventola che però avevano contribuito ad accrescerne la fortuna – quei famosi baffetti a spazzola, adorati da una schiera di barbieri, specie nel nostro Sud. Da allora fino al momento della morte per infarto, il 16 novembre 1960, se ne contano una sessantina, e molti di buon livello, vale a dire una media di più di due l’anno se si escludono gli anni della guerra che Clark Gable combatté in Europa, in qualità di ufficiale, aviatore-mitragliere sui bombardieri pesanti B-17.
Se si considera che ogni grande attore ha dalla sua un momento, una griffe subito identificabili (per Gary Cooper quella dello sceriffo Will Kane che cammina nella main street di Hadleyville prima della sfida finale in Mezzogiorno di fuoco; per Burt Lancaster il ballo del principe Salina nel Gattopardo; per Humphrey Bogart l’ascolto, quasi trasognato, di “As time goes by” in Casablanca…) non si può non riconoscere per Gable-Rhett Butler la scena finale di “Via col vento” (Gone with the wind, 1939), allorché al richiamo appassionato di Vivien Leigh-Scarlett: “Ma io ti amo…”, egli risponde beffardamente “Francamente me ne infischio”, e si allontana in un fondo pervaso dalla nebbia.
Il film “Via col vento” fu in effetti il film-top di Gable (che però, per suoi sommi stizza e disdoro, non gli portò il secondo Oscar). Nella parte di Rhett Butler, Gable si identificò al punto tale che – tre anni dopo – alla notizia della morte in un incidente aereo della sua terza moglie, Carole Lombard, colto da un incommensurabile dolore, si chiuse nel mutismo, solo con davanti la bottiglia di whisky, così come aveva fatto il capitano Rhett dopo la scomparsa della figlia Diletta.
Un altro film paradigmatico della vita e, purtroppo, della morte di Gable fu l’ultimo: “Gli spostati” (The Misfits, di John Huston,1961), da una sceneggiatura di Arthur Miller. È la storia crepuscolare di un cowboy (Langland-Gable) che si mette a catturare cavalli selvaggi per rifornire una ditta di carni e mangimi. La donna di cui si innamora, molto più giovane di lui (Roslyn-Marilyn Monroe), alla fine libererà i cavalli catturati. È un film molto malinconico, che per altro subì contrasti e polemiche durante le riprese. Ma fu anche l’ultimo film completo di Marilyn. Altri due protagonisti, Montgomery Clift e Thelma Ritter, se ne andarono a breve: l’uno nel 1966, l’altra nel ’69. Vi fu chi disse che gli sforzi compiuti dal Gable cow-boy, che non aveva voluto controfigure, furono fatali per il suo cuore già affaticato. “Gli Spostati è un film premonitore, popolato di fantasmi”, ha scritto René Jordan, uno dei più autorevoli biografi di Gable. Fantasmi, forse. In realtà personaggi che pur dalla vacuità dello schermo sono sempre presenti nei nostri sentimenti e nella nostra memoria, al di là delle leggi del tempo.
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