Si è celebrata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne sia di tipo fisico sia psicologico. Anche in Italia dall’inizio dell’anno il numero delle vittime uccise quasi sempre nell’ambito domestico a opera di mariti, conviventi ed ex fa trasecolare: centoquindici. La violenza domestica nel mondo risulta la prima causa di morte per le donne tra i sedici e i quarantaquattro anni (incide di più degli incidenti stradali). Assassinate, seviziate, malmenate, discriminate: è un’offesa capitale alla dignità umana, della persona.
Si constata che il 70% delle donne a un certo punto della vita sperimenta la violenza sotto tutte le sue forme, come risulta da una dichiarazione di Ban Ki-moon, Segretario generale dell’Onu. Si pensi alle fanciulle costrette a sposarsi a dodici o tredici anni (a inizio del secolo scorso anche da noi i casi erano tutt’altro che rari), alla tratta sessuale che travolge ben cinquecentomila tra donne e bambine nel mondo, al turismo sessuale, che pare coinvolga addirittura trecentomila italiani, ai due milioni di mutilazioni genitali femminili ogni anno, all’aborto selettivo che elimina seicentomila bambine al fine del contenimento demografico (si veda la Cina). Per la prima volta nel 2009 è comparso in una sentenza il termine femminicidio.
La violenza contro le donne si evidenzia come mezzo ordinario e continuato di sottomissione coercitiva. C’è una costante, radicale pretesa di assimilazione e di possesso da parte dell’uomo sulla donna. Il potere maschile resta intrecciato all’ordine sociale. E c’è il pericolo di dare spiegazioni naturali a fenomeni che sono soltanto storici e culturali. La violenza è una scelta, non qualcosa che accade in forza di natura; è un delitto culturale ed è un crimine contro l’umanità intera, non solo contro la sua metà. Si rifletta altresì sul fatto che era possibile un tempo anche da noi invocare il delitto d’onore a riparazione dall’adulterio femminile (ritenuto ben più grave di quello maschile).
Anche nel linguaggio e nel costume si rintracciano eredità negative: la relazione contempla sempre un lui-lei, mai lei-lui: il protagonismo dei maschi sembra un privilegio di natura; è lei che viene violentata (nella narrazione), non lui che violenta; si preferisce il verbo al passivo; l’uomo rimane padrone anche nelle nostre parole; picchiare non è da bambine, essere picchiate sì; la sottolineatura estetica per parte femminile è sempre un’aggravante. Ebbene, bisogna cambiare le parole usurate del racconto, sovvertire gli stereotipi di una cultura ancora maschilista nel profondo. È vero, tanti uomini maneschi, energumeni e disturbati non costituiscono certo la maggioranza, per fortuna, anzi. Ma la forma di riprovazione sociale dei devianti non risulta ancora adeguata. Bisogna far sentire i violenti isolati, disprezzati: devono essere costantemente e puntualmente indicati, quali sono, come dei vigliacchi.
Purtroppo, dal punto di vista della comunicazione, la narrazione dei delitti fa ascolto, ha un fascino; c’è persino uno scialo di immagini morbosamente insistite sui corpi sfigurati delle vittime. Non di rado il familismo è rappresentazione di moduli aggressivi e vincenti. Di qui la necessità di validi progetti di educazione ai sentimenti nelle scuole, di favorire la crescita culturale nei giovani. Bisogna tutelare in ogni modo le donne che denunciano, istituire corsi di autodifesa, che ora insegnino anche a non mettersi in situazioni di rischio; ratificare la convenzione di Istanbul, vero e proprio corpus di obblighi in materia di prevenzione e contro la persecuzione (solo la Turchia al momento l’ha fatto). E comunque quello che più addolora è che l’emergenza tocchi soprattutto le mura domestiche. Qui la vittima della violenza se ne fa a volte una colpa.
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