Non è stato il 2012 un anno sereno. Non lo è stato per una serie infinita di motivi che tutti sappiamo. E che hanno coinvolto l’intero mondo non risparmiando niente e nessuno. Povertà e disoccupazione, crisi economica e finanziaria, terremoti devastanti e persino gli umori del tempo, con spietate impennate meteorologiche, hanno infierito su Paesi e persone.
E poi la guerra, che non dovrebbe più esserci.
E invece continua ad essere l’ineliminabile signora di ogni civiltà che si fregia di far uso di armi sempre più potenti, armi affilate – armi “intelligenti”, dicono i generali – affidandosi a quella “scienza esatta, persuasa allo sterminio” descritta da Salvatore Quasimodo, che poi scarica il suo arsenale di odio sugli innocenti, sugli inermi, sui bambini.
Già, i bambini. Quanti sono i bambini che questo 2012 s’è trascinato via, uccisi dalla fame, dagli stenti, dall’odio? Sono 6,7 milioni i bambini morti al di sotto dei cinque anni di età per povertà e deprivazione. Ma ci sono anche i bambini d’Africa che imbracciano le armi dei signori della guerra senza saperle reggere, e i bambini dell’Africa o del Sud America che scavano nella terra delle miniere, usando le mani come cucchiai, per portare alla luce qualche pepita. E sono un’altra triste realtà. I bambini delle fabbriche schiavi di una industrializzazione che corre e corre perché trova sempre nuove risorse di piccole mani in cui far scivolare la monetina da portare a casa.
E ora, ancora i bambini di Siria, uccisi dalle bombe. E quelli della Striscia di Gaza. Per loro il 2012 si chiude con la rivelazione della tragedia. Il volto brutto della vita è arrivato dal cielo, sputato da macchine di morte sulle case, nei cortili delle scuole, nei luoghi di preghiera. Perché la guerra non risparmia niente e nessuno e il primo tradimento di una vita può avere le sembianze assassine di una stella di fuoco che incendia il cielo e s’abbatte proprio là dove un innocente correva felice dietro un aquilone.
Eppure tra quelle macerie, lungo il crinale che segna il quotidiano confine tra vita e morte, tra chi è ancora li e chi è già stato spazzato via, sopravvive, accanto alla paure degli agguati delle notti, degli improvvisi raid, la voglia di continuare, in nome dell’amore.
A volte basta il segnale di un fiocco bianco tra i capelli, annodato a una treccia. È comparsa sui giornali in questi giorni una splendida fotografia di Bernat Armangué: cinque bambine, forse alcune sono sorelle, camminano in fila, tra le macerie annerite dalle bombe nella Striscia di Gaza. Sullo sfondo case sventrate, cieche e vuote, a terra rottami di un mondo annientato. Sono come tutte le bambine del mondo, il grembiule a righe ordinato e stirato, il cappottino stretto, lo zaino in spalla, ai piedi scarpe di tela. Solo una ha sandaletti aperti, che sfidano i detriti. Due di loro si tengono per mano e tutte hanno il fiocco candido tra i capelli, capelli pettinati e strigliati da una mamma che certo le ama tanto e forse le deve amare ancora di più, da quando il pericolo soffia da vicino. Le bambine hanno un dovere da compiere e lo fanno con dignità, con l’orgoglio di presentarsi a scuola, una scuola bombardata, in perfetto ordine. Nonostante la guerra e la paura. A scuola le aspettano. Al rientro a casa, se tutto va bene, ritroveranno una famiglia che le ama. Le cinque piccole donne devono ancora crescere, ma della vita sanno già troppo.
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