Il Partito Democratico ha voluto le “primarie” dalle quali è uscito vincitore il segretario Pier Luigi Bersani dopo un confronto che ha appassionato quasi tre milioni di italiani e ha fatto lievitare significativamente i sondaggi a favore del partito. Il PDL, invece, le ha annullate dopo la decisione di Berlusconi di ricandidarsi alle elezioni della primavera.
Le elezioni primarie per l’indicazione del candidato “premier” si sono rivelate un importante strumento di democrazia; interpellano i cittadini affinché giudichino, oltre le persone, anche gli indirizzi politici e costituiscono un antidoto all’antipolitica che si alimenta di rancore e di protesta.
Il confronto serrato tra un politico stagionato come Bersani e l’ “outsider” Renzi ha inoltre sconvolto le oligarchie di un partito sin qui monopolizzato dalla sub-cultura postcomunista e, in misura assai minore, da quella postdemocristiana; l’identità del soggetto politico è uscita completamente trasformata.
Le “primarie” hanno un valore ma anche un limite: registrano il gradimento degli elettori senza permettere loro di addentrarsi troppo nella complessità della realtà sociale.
La competizione politica dovrebbe servire ad ispirare un progetto di cambiamento e ad unire intorno ad esso un gruppo maggioritario di cittadini di una società divisa. Ma nel confronto, anche televisivo, tra i candidati a “premier” il progetto non si è visto e le proposte sono state assai generiche. L’attenzione dei votanti è stata catalizzata piuttosto dallo “stile” dei personaggi, dalla gestualità, dalla scioltezza del linguaggio, dal modo di porsi, persino dall’abbigliamento e anche dal “pantheon” degli antenati.
In un Paese dove non c’è una istituzione che prepari la classe politica dirigente e dove i partiti sono incentrati sulla figura del “leader” e sulla comunicazione mediatica, c’è il rischio che la scelta del personale dirigente sia basata su elementi estetici ed emotivi piuttosto che sulla capacità di intuizione e di analisi sociale e di coerente realizzazione.
La democrazia “diretta” era forse possibile nelle piccole città della Grecia classica ma oggi è chiaramente una finzione: pensare di mettere il Paese nelle mani di una sola persona affinché risolva i problemi prescindendo dai comportamenti della popolazione è un’utopia. Nelle società moderne vi sono altri, più importanti strumenti per chiamare i cittadini a partecipare alla vita pubblica e determinare le scelte: sono i partiti che, purtroppo, godono di cattiva fama in quanto sono tutt’altro che aperti all’apporto dei cittadini, anzi sono dominati da oligarchie che spesso fanno da filtro alle aspettative popolari.
Il rimedio non è quello applicato dai nostri concittadini che, periodicamente, cancellano i partiti con il loro patrimonio di idee, di valori, di tradizioni senza porre attenzione al fatto che il personale dirigente si travasa in nuovi soggetti, dietro nuove sigle, sicché il “nuovo” diventa un’illusione.
Il volto del leader è divenuto più importante dei programmi e si verifica in tal modo una grave distorsione della democrazia che non è più “governo del popolo” ma una delega al personaggio più popolare; la politica si personalizza ma anche si privatizza e mentre ci si scandalizza, giustamente, per gli emolumenti e i privilegi eccessivi accordati agli eletti dal finanziamento pubblico, non ci si avvede che l’abolizione di ogni forma di contributo statale non moralizzerebbe il ceto politico ma lo porrebbe alle dipendenze dei poteri privati. Anche chi non può disporre di ingenti risorse finanziarie da impiegare in costose campagne elettorali, deve avere la possibilità, se ne ha i meriti, di essere eletto nelle istituzioni democratiche; la democrazia non è plutocrazia.
Una delle più importanti riforme del nostro sistema democratico dovrebbe consistere in una legge applicativa dell’articolo 49 della Costituzione che stabilisca un sistema di regole democratiche certe per la vita interna e per le funzioni pubbliche esercitate dai partiti. Senza tale disciplina prevale un concetto proprietario della politica e dei partiti e il “popolo”, anziché essere un insieme organico di persone legale da interessi ma anche da valori, diventa un aggregato atomistico, una “platea televisiva” dove ci si emoziona ma si resta ininfluenti.
La politica non è solo “volontarismo”, non si riduce all’ “I can” di Obama in cui il programma si identifica con il candidato; anche in America la politica vuol dire scegliere tra gli interessi divergenti dei singoli e il bene comune collettivo.
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