Finisce come peggio non poteva finire. Con il resto del mondo che ci commissaria, con Berlusconi obbligato a una resa totale, con gli alleati prima delusi, poi angosciati, infine perduti. Perduti nel grottesco di un’uscita di scena da fine impero, non da fine legislatura: inveiscono nell’emiciclo di Montecitorio, raccolgono dileggi e insulti dalla folla, diffondono gestacci e malaparole. Ah Sacconi. Ah Formigoni. Ah molti (troppi) altri. È l’ultima malinconia immagine d’un film che propone sequenze più tragicomiche che drammatiche. Sic transit gloria mundi, disse B. poco tempo fa di G. Appunto, fatte le debite proporzioni: dal tramonto libico a un tramonto livido.
L’alba – anzi, il vespero capitolino d’una domenica epocale – è la consegna del Paese a Mario Monti. Ci deve provare lui. È l’unico che può, per ammissione diffusa e fatta salva la calcolata eccezione padanista per interesse di bottega elettorale. Perfino Di Pietro, dopo un’indecorosa contorsione, gli dice di sì. Perfino Vendola, dopo struggenti distinguo, non gli dice di no. Monti raccoglie la sfida, raccoglie il coraggio, raccoglie il Paese. Che è sfiancato, avvilito, turbato. Ha ben colto, assai prima e assai meglio d’una classe politica miope e sciagurata, la posizione in cui si trova: sul crinale del precipizio. E affida a Monti il compito di sottrarvisi, costi quel che costi. Meglio: costi il giusto che deve costare. Nella certezza che il professore e il suo esecutivo di professori, sapranno coniugare rigore con equità, sacrificio con rilancio. Ci riusciranno? È difficile dire se ci riusciranno. Ma nessuno avrebbe potuto candidarsi, in vece loro, al tentativo. L’ultimo rimasto, dopo aver perduto così tanto tempo, occasioni, opportunità. Dopo aver ignorato il diritto a fare per tutti e atteso al dovere di fare per pochi. Talvolta per uno solo. Ah Berlusconi, ah Bossi, ah tanti altri pidiellini e leghisti.
Monti è un varesino. Non solo per caso. Non solo perché qui, nella clinica Rovera di viale Aguggiari, è nato nel ’43, figlio d’una famiglia di sfollati milanesi. O perché il papà, amante di ciclismo, lo portò ad applaudire i mondiali del ’51 alle Bettole. O perché trascorse lunghi periodi di vacanza in una villa di Sant’Ambrogio. O perché godeva (gode) di poche e solide amicizie, come quella con Alfredo Ambrosetti. Monti è un varesino che ha mantenuto forte il legame con la nostra terra e ne ha sposato alcuni valori fondanti del suo vivere. Li rappresenta da anni su fronti diversi, accademici e politici. Sono i valori della sobrietà, della lungimiranza, del senso etico, della coscienza civile, del pragmatismo politico, dell’indipendenza intellettuale, d’una visione liberale e riformista del mondo. Sono altri e importanti valori, di cui non vale fare l’elenco completo. Basta dire di lui, per riassumere l’opinione circolante in Italia e fuori d’Italia, che è un uomo (una personalità) di cui ci si fida. Cioè l’esatto contrario di quelli che hanno governato fino ad ora (e non solo in questa legislatura: le colpe del nostro disastro hanno radici lontane e colori politici diversi), diffondendo oltreconfine un’immagine di superficialità, improvvisazione, professionistico dilettantismo.
Anche noi ci fidiamo di Monti. Anzi, siamo orgogliosi che uno come Monti s’adoperi nell’impresa di rendere possibile l’impossibile: trasformare un Paese scherzato in un Paese rispettato. Per il mezzo del giacobinismo mite, di cui egli prevedibilmente farà uso nella rivoluzione finalizzata a ridarci adeguati fondamentali economico-sociali, ritroveremo (forse ritroveremo) la perduta sovranità. Quella su noi stessi, oltre a quella nel rapporto con il resto del mondo. E magari riusciremo a sfatare la celebre (tristemente celebre e vera) tradizione secondo la quale governare gl’italiani non è difficile, è inutile. Forse è più facile e utile di quanto non si creda, soprattutto in un’emergenza epocale.
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