Sono tra gli oltre quindici milioni di telespettatori che hanno assistito alla elegante ed istrionica performance di Roberto Benigni al Festival di Sanremo dello scorso anno, quando, entrato in scena a dorso di un cavallo bianco e brandendo il tricolore, ha aperto un nuovo orizzonte culturale.
Con la forza della parola e attraverso le parole di un giovane patriota ha parlato di noi, che siamo popolo, siamo patria, siamo storia e futuro.
Ero quella sera tra coloro che, davanti al video, si sono commossi nel sentire per la prima volta l’inno della nostra patria sussurrato con struggente dolcezza.
Sono tra i tantissimi insegnanti del nostro Paese che, da quel 17 febbraio 2011, ritengono Benigni, tra l’altro candidato al Nobel per la letteratura in ragione dell’opera intensa e preziosa di diffusione della Divina Commedia nel mondo, artefice sul palco profano dell’Ariston di una seria lezione di storia e di cultura. Sono tra i numerosi docenti che, proprio per questo, ripropongono alle proprie classi la commemorazione dell’inno di Mameli in quella originale versione, per bocca dell’attore italiano che ha avuto il coraggio di riportare fuori dalla retorica o dalla polvere un bene comune e di tutti.
L’inno di Mameli, che possa piacere o meno, è nel ricordo di tanti adulti di oggi, alunni fino a qualche decennio fa e chiamati a mandare quel testo a memoria, cadenzandone il ritmo magari anche con la mano sul cuore, se non cantandolo a squarciagola.
L’inno di Mameli è quello che ho sentito cantare, con la gioia dell’ingenua bellezza con cui sia canta una melodia che tutti conoscono, dai bimbi della scuola materna del mio rione in occasione della festa di fine anno nell’anniversario del centocinquantesimo dell’Unità.
L’inno di Mameli è quello che gli atleti azzurri sul podio cantano tra lacrime di gioia, sentendo in quelle parole l’abbraccio di tutti i loro connazionali.
L’inno di Mameli è nel ricordo di un’estate di molti anni fa, quando, capitata per caso in un paese della Germania, ero incappata in una cena di emigrati italiani e quelle parole avevano il sapore forte della nostalgia e del sogno di potere ritornare nella propria terra.
L’inno di ogni Paese è storia e, al tempo stesso, è capace di andare oltre ogni dato contingente: fissa nella memoria comune e condivisa un punto di partenza dal quale si riconosce l’inizio di un cammino collettivo, innegabile, vero, reale. E’ un presente che ha avuto lo slancio ideale di farsi futuro. E’ vita, amore, fervore, ideali di uomini e donne, città e paesi, lingue e culture che hanno avuto a cuore quanto capace di unire, superando ogni limite tendente invece a separare o creare differenze.
C’è voluto il coraggio di un uomo di cultura per ridargli dignità fuori dalle sedi ufficiali, per portarlo trionfante sul palco del più grande spettacolo canoro della nostra tradizione. E quando in quella occasione Benigni aveva sintetizzato in una frase memoriale che “quei giovani hanno imparato a morire per la patria perché noi potessimo vivere per la patria” ha mozzato il fiato in gola.
Ora c’è voluto un decreto ministeriale per restituire nuovamente dignità nella scuola al nostro inno nazionale, nell’ultimo ventennio strapazzato e deriso, messo in cantina e massacrato da parafrasi sommarie e di parte. C’è voluta una legge che ricordasse come nessuna Patria sia barattabile con la qualsivoglia idea politica. Un coraggio civico quello del Ministro che molti politici non hanno mai avuto prima. Che ogni classe d’Italia allora abbia in bella vista l’inno del nostro Paese, perché sia amato come parte di ciascuno di noi. E credo che Verdi, da grande uomo del Risorgimento qual era, sarebbe stato il primo a lasciare che il suo splendido Va’ pensiero restasse nella storia per tutta la sua valenza artistica e d’ingegno ma senza togliere la dignità di lode alla patria alle parole di un giovane, che questa nostra patria l’ha servita, come tanti altri, fino in fondo.
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