Per quasi mezzo secolo gli italiani hanno votato con il metodo proporzionale: ciascun partito si presentava agli elettori da solo e dopo il voto si trattava in Parlamento per decidere le alleanze con cui governare.
Il sistema non consentiva di scegliere prima la maggioranza di governo ma la presenza di un partito-perno come la Democrazia Cristiana riduceva i rischi della instabilità. È vero che i governi, mediamente, duravano poco più di un anno ma essi venivano regolarmente ricostituiti con lo stesso indirizzo politico, lo stesso programma e, quasi sempre, con lo stesso personale. Gli italiani sapevano che il centro democratico non avrebbe consentito deviazioni radicali sia verso destra che verso sinistra che, infatti, non furono mai determinanti.
In questo modo la “governance” ha permesso di affrontare alcuni nodi strutturali con programmi a lungo termine che oggi sarebbero semplicemente impensabili. La realizzazione di una moderna industria di base, la costruzione dello Stato di sicurezza sociale, la riforma agraria che ha spezzettato il latifondo, il piano per la costruzione di alloggi, il piano economico di sviluppo sono stati possibili perché nei partiti politici non c’era l’assillo delle prossime scadenze elettorali e si poteva guardare anche alle future generazioni. Oggi la politica deve fare i conti con un elettorato esigente che non esprime più un voto di appartenenza ma di opinione e i partiti non rappresentano più un patrimonio tradizionale di principi, di valori e di esperienze ma spesso si basano sul carisma del “leader” e privilegiano i temi in base alla popolarità e non alla priorità.
Dopo il crollo dei partiti democratici, la seconda Repubblica è nata sulla dichiarata volontà di rendere direttamente i cittadini responsabili delle scelte ma questa democrazia “diretta” non ha aumentato il loro potere; essi sanno in anticipo quale sarà la maggioranza ma non conoscono il programma che resta affidato ad una coalizione di soggetti disomogenei.
Le coalizioni prive di omogeneità e rissose che hanno accompagnato l’esperienza democratica dell’ultimo ventennio non hanno funzionato; Berlusconi ha visto dissolversi tra risse e lotte intestine la sua maggioranza di oltre cento deputati ma anche i due governi Prodi sono stati abbattuti dal “fuoco amico”.
Il tentativo di puntellare i risultati elettorali con consistenti premi maggioritari non ha rimediato al deficit di politica dei nuovi soggetti personalistici; anzi le alleanze gonfiate artificialmente non hanno funzionato e hanno svelato soltanto un’illusione.
Con l’attuale legge elettorale – il cosiddetto “porcellum” – la coalizione che prende più voti, indipendentemente dal loro numero ottiene il premio e conquista il 55 per cento dei seggi alla Camera (al Senato vige invece una variante più aleatoria perché su base regionale).
Se a livello nazionale si ripetessero i risultati delle ultime elezioni siciliane, andrebbe al governo il Movimento di Beppe Grillo che ha ottenuto il 18 per cento dei voti; in effetti quel risultato va dimezzato perché ha votato meno della metà degli aventi diritto e, pertanto, con il 9 per cento dei consensi Grillo diventerebbe il padrone della nostra democrazia.
Lo stravolgimento del sistema elettorale è evidente e supera l’effetto perverso della famosa legge Acerbo che consentì al fascismo di instaurare la dittatura.
Giustamente la Corte Costituzionale è intervenuta per segnalare il rischio di una crisi della nostra democrazia; di qui l’esigenza e l’urgenza di varare una nuova legge elettorale più volte richiamate dal Capo dello Stato per spingere i partiti a trovare una soluzione.
La proposta di stabilire una soglia minima del 42,5 per cento per ottenere il premio di maggioranza ed avere così diritto al 55 per cento dei seggi sembra ragionevole ma, in realtà, risulterebbe inapplicabile per l’attuale frantumazione del sistema dei partiti.
Nessun soggetto politico e nessuna coalizione sarebbe in grado di ottenere la soglia prevista e pertanto varrebbe il metodo proporzionale che impedirebbe la formazione di una maggioranza di governo, il Paese entrerebbe in una situazione di caos. In tal caso però il primo partito in termini di consensi ottenuti beneficerebbe di un “bonus” del 10 per cento. Una possibile mediazione fisserebbe al 40 per cento la soglia per ottenere il premio di maggioranza, ma siamo di fronte ad artifici che cercano di rimediare alla frammentazione causata da una politica priva di una visione generale della società e attenta soltanto agli interessi di gruppi, corporazioni e lobby.
I partiti sono stati sin qui incapaci di trovare un compromesso onorevole e si è assistito a un nulla di fatto che significa il suicidio di una classe politica dirigente che, nell’incapacità di decidere, lascia spazio allo corruzione e giustifica l’indignazione dei cittadini, indignati e disorientati.
È sperabile che nelle poche settimane utili che ci separano dalle elezioni di primavera un compromesso possa essere raggiunto.
È certo però che, con questi precedenti, la seconda Repubblica, con le sue illusioni e i suoi miti, è ormai giunta al capolinea
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