Malgrado la crescente insoddisfazione nei confronti della sua politica economica, che sin qui non ha inciso in modo significativo sulla crisi in atto, Barak Obama è stato rieletto alla presidenza degli Stati Uniti per un altro mandato.
Al di là del clima da finale del campionato mondiale dei pesi massimi degli anni d’oro del pugilato, o da partita clou dei mondiali di calcio — in cui le elezioni presidenziali americane sono ormai state immerse dalla moderna macchina radio-televisiva planetaria, sempre avida di grandi eventi di facile drammatizzazione – si tratta adesso di vedere quali lezioni e quali previsioni si possono trarre da questa vicenda lasciandosi alle spalle la marea di inutili chiacchiere con cui per ore le Tv italiane hanno riempito l’attesa dell’esito del voto.
Una lezione positiva sta nel fatto che ormai si conferma come l’appartenere a una minoranza molto caratterizzata non sia più un ostacolo insormontabile all’elezione a presidente degli Stati Uniti. I neri (molto più numerosi nei film e in tv che nella realtà) sono il 12,3 della popolazione americana e i mormoni soltanto l’1,9 per cento. Ciononostante né l’essere nero di Obama (peraltro un nero atipico, figlio di un padre che era un immigrato recente dal Kenya e di una madre bianca), né l’essere mormone di Romney ha inciso in modo distorto sulla contesa.
In secondo luogo, per quanto riguarda in particolare l’eco in Italia della vittoria di Obama, merita di venire sottolineato che da noi provoca invece distorsioni il fatto che il grosso dei cronisti e dei commentatori è personalmente su posizioni di sinistra e di centro-sinistra: orientamento che diventa quasi assoluto nel caso dei corrispondenti e degli inviati negli Usa. Di qui un vero tripudio ogni volta che, come ora è accaduto, il candidato democratico prevale su quello repubblicano.
In realtà il nostro interesse nazionale o più ampiamente il nostro interesse di europei dovrebbe indurre a sentimenti opposti se è vero come è vero che la politica internazionale del leader di “sinistra” di una potenza egemone è di regola molto più aggressiva di quella che farebbe un leader di “destra”. Il primo ha più del secondo bisogno di risorse per soddisfare gli interessi popolari di massa che rappresenta, ed avendone la forza trova spesso più semplice e meno costoso sul piano politico attingere quanto gli serve all’esterno piuttosto che all’interno. È questa un’antica legge storica che già trovava conferma nel caso dei tribuni della plebe dell’antica Roma, che per vettovagliare i poveri dell’Urbe preferivano ordinare requisizioni di frumento in Sicilia più che nei vicini latifondi dei Quiriti patrizi. Si potrebbero poi citare casi più recenti: da De Gaulle che concede l’indipendenza all’Algeria mentre il governo del socialista Mendès-France aveva tentato fino all’ultimo di schiacciarne la resistenza con ogni mezzo fino al presidente americano John Kennedy che inaugurò il proprio governo con una spedizione militare a Cuba e che diede poi il via alla guerra in Vietnam. E che dire di Obama che, fra grandi pacche sulle spalle, ha fatto e lasciato fare tutto il possibile perché la crisi scoppiata negli Usa nel 2008 si scaricasse sul resto del mondo?
I presidenti Usa espressi dal partito democratico sono in genere più cordiali e simpatici di quelli espressi dal partito repubblicano (o comunque vengono resi tali dai media) ma non per questo la loro politica può e deve piacerci a priori. Ad ogni modo quattro anni sono troppo pochi per realizzare un programma di governo. Un cambio di presidente dopo un solo mandato rischia quindi di provocare in ogni caso più danno che vantaggio. Può darsi che questa considerazione di semplice buon senso abbia contribuito non poco alla vittoria di Obama. Adesso però si tratta di vedere se egli finalmente riuscirà, e non solo a spese dei Paesi alleati, a risolvere i cruciali problemi che sin qui, pur fra tanti sorrisi, non ha affatto risolto.
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