Dei film che hanno trattato o parlato della guerra nel Vietnam “Il cacciatore” (“The deer hunter”, letteralmente “Il cacciatore di cervi”), è uno dei più interessanti e importanti. Il regista Michael Cimino lo firmò nel 1978, quindi tre anni dopo la caduta di Saigon e la fuoruscita degli americani sconfitti dalla capitale vietnamita del Sud che da lì a breve avrebbe assunto il nome di Città di Ho Chi Minh. Una delle scene più suggestive del film è proprio quella in cui Michael – il protagonista del film, che ha lo stesso nome di battesimo del regista, interpretato da un magistrale Robert De Niro – si aggira nella città caotica e “putrescente” alla ricerca dell’amico Nick, che non ha mai fatto ritorno a casa ed è rimasto nel Vietnam a dare spettacolo di sé nel tragico gioco della roulette russa.
La storia si articola nell’arco di quasi due ore e mezzo. Siamo nella seconda metà degli anni Sessanta. Un terzetto di amici, di ragazzi, operai in una acciaieria di Clairton, Pennsylvania, figli di immigrati ucraini, stanno per partire per il fronte vietnamita: Michael, Steven e Nick (De Niro, John Savage, Christopher Walken). Il gruppo sarebbe più folto, ma sono solo tre i giovani che si sono potuti arruolare, gli altri – a malincuore – hanno dovuto rinunciare. Prima della partenza il regista tratteggia alcuni momenti della loro vita privata e in comunità: gli ultimi giorni di lavoro, il matrimonio di Steven e Angela, Nick che durante la cerimonia festosa e malinconica al tempo stesso celebrata in rito cristiano-ortodosso chiede la mano di Linda (Meryl Streep), e lei gliela concede, una spedizione sulle montagne per la caccia al cervo guidata dal silenzioso Michael (che forse soffoca i propri sentimenti nei confronti di Linda per non turbare l’amicizia con Nick). Dopodiché, dopo la quiete delle montagne della Pennsylvania, si passa alla base di guerra nel Vietnam (Cimino ambientò queste vicende in Thailandia). Il frastuono delle pale e dei motori degli elicotteri, la giungla, la cattura dei tre amici da parte dei vietcong, la loro prigionia nelle gabbie immerse nell’acqua in compagnia di topi grossi come gatti, le torture, il micidiale rito della roulette russa, cui Michael riuscirà a sottrarsi, e a liberare gli amici, con un blitz tanto audace quanto fortunato.
Il ritorno a casa, per Michael, sarà quanto di più triste e amaro si possa immaginare. Lui sempre più cupo e silenzioso, gli amici penalizzati da una guerra detestata in patria, ma vissuta pericolosamente e, in un certo senso, eroicamente fuori di essa. Steven, che ha perduto l’uso delle gambe, stenterà a ritrovare la moglie che ha avuto un figlio da un altro uomo, credendolo disperso. Nick, sopraffatto dagli stupefacenti, si è lasciato coinvolgere ancora nel “gioco” della roulette russa, che adesso, nella “nuova” Saigon, affronta come professionista, e ne morirà. Le scene finali sono memorabili: il gruppo di un tempo si ritrova riunito ai funerali di Nick e intona un malinconico, ma patriottico, “God bless America”; Michael di nuovo a caccia sulle montagne non sparerà a un magnifico cervo ma tirerà in aria, lasciando libero e vivo l’animale, nel segno di una ritrovata pace e tolleranza con la natura e forse anche con sé stesso.
Il film fu accolto come un capolavoro negli USA. Da noi la critica ne diede un giudizio controverso. Paolo Mereghetti nel suo “Dizionario dei film” lo annovera tra i capolavori. Giovanni Grazzini, all’epoca critico del Corriere della Sera, lo considerò una sorta di polpettone girato quasi come omaggio e riscontro dello star-system hollywoodiano. Di più, Grazzini, scrivendo del film, ne sottolineò alcuni punti che Cimino, da buon mestierante, ma non eccelso, aveva sottratto a registi coevi: gli echi di Peckinpah nelle scene di violenza, di Altman nelle sequenze della festa di nozze, di Scorsese e di Coppola nella descrizione dell’amicizia tra i protagonisti…
Qualunque sia il giudizio, però, il film fece parlare di sé e fu una lettura interna critica e amara – una delle prime per altro – di una guerra vissuta e non voluta che aveva dilaniato un Paese, più di ogni controversia.
Michael Cimino, prima del Cacciatore, aveva girato film che, sebbene non appartengano alla storia del grande cinema, avevano ottenuto un discreto successo, per esempio, nel 1974, “Una calibro 20 per lo specialista”, con Clint Eastwood. Egli, anche se non riuscirà a ripetere la scrittura di un capolavoro come il Cacciatore (il suo film “I cancelli del cielo”, nel 1980, si rivelerà un fiasco tale da mettere in ginocchio la United Artists), appartiene a buon diritto alla schiera degli autori e degli attori italo-americani, che tanto di sé hanno improntato il cinema degli anni Settanta e Ottanta: Scorsese, Coppola e De Palma tra i registi; De Niro, Stallone, Al Pacino e poi Di Caprio tra gli attori, solo per citarne alcuni.
Nel 1979 “Il cacciatore” fece incetta di Oscar: miglior regia, miglior attore non protagonista (Christopher Walken), miglior montaggio e suono… Robert De Niro, che pure aveva avuto la nomination, non ebbe la statuetta (ma l’aveva ottenuta tre anni prima come attore non protagonista per l’interpretazione di Vito Corleone giovane nel Padrino-Parte II). Come attore protagonista la vincerà nel 1981 con Toro scatenato (“Raging bull”, di Martin Scorsese), dove giganteggiò nella rappresentazione della vita del pugile campione del mondo dei pesi medi Jack La Motta, “il Toro del Bronx”. Ma anch’egli un italo-americano.
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