Tra i mille episodi di quel grande affresco di umanità dei Promessi sposi c’è particolarmente significativo quello in cui Padre Cristoforo va al palazzo di don Rodrigo e si trova coinvolto in una disputa cavalleresca tra i nobili e le autorità presenti. “Ecco la storia – spiega don Rodrigo -. Un cavaliere spagnolo manda una sfida a un cavalier milanese: il portatore, non trovando il provocato in casa, consegna il cartello a un fratello del cavaliere; il qual fratello legge la sfida, e in risposta dà alcune bastonate al portatore…”. I convitati si dividono tra chi condanna e chi giustifica, ma sollecitato di un giudizio Padre Cristoforo sommessamente afferma: “Il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate”.
L’Italia di oggi non è quella descritta così sapientemente dal Manzoni, ma il parere di padre Cristoforo sembra calzare a pennello nell’ultima vicenda che ha visto coinvolta la Fiat di Pomigliano d’Arco. In quello stabilimento alla periferia di Napoli la Fiat ha trasferito la produzione della nuova Panda creando una nuova società (Fabbrica Italia Pomigliano) a cui sono stati ceduti gli impianti, gli immobili e la titolarità dei contratti di lavoro che facevano capo a quello stabilimento. Ma dei quattromilacinquecento occupati negli anni scorsi ne sono stati immediatamente riassunti solo poco più di duemila, gli altri sono stati messi in cassa integrazione dato che la produzione è praticamente dimezzata rispetto alle previsioni a causa del crollo delle vendite di auto non solo in Italia, ma in tutta Europa.
La Fiat ha profondamente ristrutturato gli impianti produttivi di Pomigliano dopo un accordo su nuovi turni e più flessibili modalità di lavoro, accordo stipulato con tutti i sindacati tranne la Fiom, la combattiva componente dei metalmeccanici della Cgil. Proprio sulla base di un esposto della Fiom i giudici hanno imposto alla Fiat l’assunzione di diciannove lavoratori iscritti a questo sindacato e sulla base di quest’obbligo l’azienda ha risposto avviando le procedure per licenziare altri diciannove operai dato che, motiva la Fiat, “le attuali condizioni del mercato non consentono di aumentare il numero degli occupati”.
Chi ha ragione e chi ha torto? Qui calza a pennello la risposta di Padre Cristoforo: non vi dovrebbero essere né esposti giudiziari, né assunzioni obbligate, né licenziamenti per ritorsione. Allo stesso modo con cui è intervenuto il parroco della comunità di San Felice, dove ha sede lo stabilimento, don Peppino Gambardella: “È il diavolo che divide ed è Gesù che unisce”, ha detto richiamando “la proposta evangelica dei contratti di solidarietà”.
Il problema di fondo infatti non è tanto quello di dividere la ragione e la colpa, ma di guardare a due elementi fondamentali: da una parte la dignità della persona e del lavoro e dall’altra la necessità di dare prospettive di crescita al sistema economico.
Proprio questi due fattori sono stati quelli messi a più dura prova in questa occasione. I lavoratori che diventano dei numeri, che vengono considerati avere (o non avere) dei diritti solo per il fatto di essere iscritti a un certo sindacato. Perché non va dimenticato che i giudici obbligando ad assumere alcuni hanno in pratica discriminato tutti gli altri. E il “fare impresa” che si trova coinvolto in dispute che nulla hanno a che fare con la produttività, la competitività, la motivazione al lavoro che sono elementi fondamentali di quella crescita economica che tutti dicono di volere.
L’intricata vicenda di Pomigliano è stata finora un modo sbagliato di affrontare problemi reali. Offrendo un’immagine del mondo del lavoro italiano che è l’esatto contrario di quanto chiederebbe qualunque azienda internazionale che volesse decidere di investire nel nostro Paese. Eppure degli investimenti esteri avremmo bisogno come l’ossigeno per dare prospettive di fiducia e di sviluppo.
Con la logica che abbiamo visto in campo in questi ultimi giorni si può dire che un sindacato come la Fiom e un’azienda come la Fiat possono forse vincere una battaglia, ma si avviano sicuramente a perdere la guerra. E l’economia reale, le persone, la necessità di produrre ricchezza non fanno passi in avanti con le vittorie di principio a cui seguono le sconfitte nella realtà.
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