“L’ospedale come luogo di evangelizzazione, missione umana e spirituale”; sarà questo il tema della XXVII conferenza internazionale organizzata dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari che si terrà dal 15 al 17 novembre in Vaticano. In un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano del 25 aprile 2012 a commento della notizia, veniva messo in rilievo che “la Chiesa ha sempre avvertito il servizio ai malati come parte integrante della sua missione. Oggi tuttavia essa ha maturato una più chiara consapevolezza del ruolo attivo del malato, non solo destinatario di un servizio pastorale ma chiamato al compito di protagonista e responsabile dell’opera di evangelizzazione e di salvezza”.
Sempre nello stesso articolo monsignor Jean-Marie Mupendawatu, segretario del Pontificio consiglio per gli operatori sanitari puntualizzava che “con la medicina, con la scienza, noi possiamo restituire la guarigione, ma non dobbiamo limitarci a ciò. Questo è il rischio: si bada solo al corpo, si pensa solo a restituire salute in conseguenza di una domanda fisiologica. (…) Se noi cerchiamo di costruire un bellissimo ospedale senza anima, senza salvezza, siamo fuori dalla missione che ci viene dal nostro Signore. Per questo non possiamo pensare da manager. Non è questo il nostro compito. Il Signore non ci ha detto di fare così. Potremmo anche lasciare gli ospedali, ma certo non possiamo lasciare il nostro servizio al mondo della sofferenza e della salute”.
Parole alte, belle, ma troppo alte, distanti, per aiutarci a risolvere i problemi quotidiani della sanità? Per capirlo entriamo in una corsia ospedaliera, dove la gestione delle risorse e il raggiungimento degli obiettivi aziendali ha accentuato la percezione che l’ospedale sia territorio del medico, dell’operatore sanitario e il malato, i suoi cari, sono sempre più assoggettati a un ordine e a una disciplina che hanno sempre meno a che fare con la tutela della salute e sempre più con quella degli spazi e dei tempi propri di chi nell’ospedale lavora.
Questa sensazione è oggetto di riflessione da molti anni e progetti volti a ridefinire il rapporto di identità dell’ospedale con l’ammalato (l’ospedale è l’ammalato, potremmo tentare di proporre così una sintesi, uno slogan), come le rianimazioni aperte, dove l’accesso dei familiari è consentito durante tutta la giornata, sono già in atto in molti ospedali italiani.
Pochi forse sanno che un progetto identico era stato avviato nel 2011 all’Ospedale di Circolo, ma alcuni giorni prima dell’attivazione era stato ritirato per motivi che ignoro e non posso quindi commentare.
Altri segnali vengono però dal mondo del paziente; basta frequentare un ambulatorio in cui chi vi accede sempre più spesso espone non tanto la storia della propria sofferenza ma presenta l’organo malato in modo che il sistema assistenziale eroghi la prestazione riparativa; ormai i pazienti giungono al medico enunciando la diagnosi che li ha condotti dallo specialista, seguendo una logica di accoppiamento causale tra fatti che spesso ha poco a che fare con la complessità della malattia e della medicina. E quando questa relazione tra medico e paziente, perduto il proprio connotato di rapporto di fiducia a favore di una cornice contrattuale, non sfocia nella riparazione dell’organo, la sorpresa e il rammarico fanno da sfondo alla richiesta di risarcimento dell’offesa.
Qualche cosa si è spezzato nel rapporto medico paziente, da entrambe le parti, il problema è enorme nella sua complessità perché credo che riguardi non solo le corsie ospedaliere ma la difficoltà di relazione palpabile in ogni campo sociale. Dovremmo provare a restituire alle piazze, alle strade, agli uffici, agli ospedali la loro realtà di luoghi di incontro, di sguardi diretti, disponibili alla fiducia verso l’altro.
Parole alte, distanti, inutili per la soluzione dei problemi quotidiani? Purtroppo e per fortuna non credo sia così perché ancora una volta, in un modo complesso ma allo stesso momento semplice nella sua ovvietà, mettono al centro l’uomo, l’unico vero “oggetto” al centro dell’interesse di tutti.
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