Faccio tanta fatica, lo confesso, a pensare che un giornalista – scrittore – intellettuale come Giampaolo Pansa dopo le precedenti esperienze librarie, tutte giocate sulla convinzione che il popolo italiano non sapesse com’erano andate le cose fra il ‘43 e il ’45, tanto da avventurarsi lungo immaginifiche ricostruzioni senza il becco di una fonte e la citazione di una nota, il che poneva lo scritto d’ufficio al di fuori della Storia, quella con la S maiuscola, si potesse avventurare, come ha fatto oggi, sul terreno della guerra di Liberazione con un libro La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, euro 19.50) che spezza il cuore, dilania le coscienze, lascia senza fiato.
Ma sei tu il Pansa che ho conosciuto a “il Giorno” nel febbraio del ’69 quando mi segnalasti per farmi assumere, cosa che avvenne, da Italo Pietra e Angelo Del Boca (e poi nel ’74 al “Corsera” da Piero Ottone, attraverso gli ammaestramenti di Salvatore Conoscente e Giancarlo Pertegato), il Pansa della bella tesi di laurea “La Resistenza fra Genova e il Po” che meritò il premio Einaudi ricevuto a Dogliani, tesi poi diventata un libro rigoroso, zeppo di note, per i tipi di Laterza nel ’67 e poi nel ’98, il Pansa dell’Esercito di Salò scritto coi fondi GNR della Fondazione Micheletti di Brescia, editato dall’Istituto Nazionale del Movimento di Liberazione di Ferruccio Parri, eccetera?
No, non puoi essere tu. Non è quel Pansa. Questo è un altro uomo. Un sosia un po’ grigio e un po’ nero. Sostenere che la guerra partigiana sia stata come quella dei repubblichini (a parte il fatto che si sparasse da ogni parte), che Vincenzo Moscatelli, il commissario politico delle Divisioni Valsesia sia stato simile nella strategia al feroce comandante della Divisione Tagliamento Merico Zuccari, che Fulvio De Salvo Pier, il comandante del Battaglione Camasco in alta Val d’Ossola sia stato, per animo, per speranze, per gesti come il bieco capo di Villa Triste di Varese, Giovanni Battista Triulzi, che Aristide Marchetti Aris, il valoroso capo della Valtoce di Alfredo Di Dio, Eugenio Cefis, Attilio Moneta, sia stato pari al capo della Brigata Nera Vezzalini, che i Borghese, i Koch, i Carità, i De Fenizio, i Colombo della Muti, i Saletta, possano essere ricondotti alle figure di Filippo Beltrami il capitano, Aldo Aniasi Iso, Andrea Vicario Barbis, Giuseppe Macchi Claudio, Luigi Meneghello, Roberto Battaglia, Giorgio Bocca, eccetera svela la “cifra” della disinvolta e commerciale operazione.
Tutti uguali. Tutti condannabili. Meglio fossero stati a casa, questi partigiani secondo Pansa, come i tantissimi della “zona grigia” o come quelli che passarono in Svizzera in attesa che la guerra finisse.
A Pansa conducente di questa fortunata macchina editoriale che certamente gli ha prodotto denaro (peraltro legittimo) ma credibilità alcuna, sfugge (ora, non allora) che quella guerra fu voluta dal fascismo, che Mussolini fu posto da Hitler alla testa di uno Stato ostaggio, che la parte migliore del popolo italiano insorse in armi per riconquistare la libertà perduta. Nascondere questa verità attraverso il marchingegno della “sporca guerra” è operazione biasimevole e strumentale di cui il Paese fra l’altro in questo momento non ha proprio bisogno.
Equiparare le parti, senza differenziarne i tratti costitutivi, suona come un’operazione mercantile di infima qualità.
Stiamo a Varese. La contenuta Resistenza locale affidata alle GAP di Marcobi-Macchi e di René Vanetti si misurò sul campo con azioni temerarie, non sempre andate a buon fine, ma generose mai sporche: il blocco delle centraline elettriche all’Avio Macchi per impedire la costruzione dei caccia Veltro e Saetta per la RSI e il Reich, il disarmo dei fascisti, gli attentati alle sedi militari, i sabotaggi delle linee elettriche. Classiche azioni di guerra.
Dall’altra parte, la repressione feroce della Scuola Allievi Ufficiali della GNR, la fucilazione dei dodici ragazzi della Lazzarini dopo la cattura e la violenza personale, la tortura a Villa Triste di Triulzi e Pieroni, l’ondata delatrice delle polizie private per rastrellare gli ebrei, l’arresto e la morte di decine di innocenti, sacerdoti compresi, quelli del confine con la Svizzera impegnati nell’aiuto ai fuggiaschi e finiti da don Rimoldi a don Griffanti a don Folli a San Vittore.
La tesi non regge. Non regge la disinvolta equiparazione delle parti, milizie repubblichine e partigiane, segnatamente quelle “rosse” delle Garibaldi, nel tentativo, fallito, di sfatare l’idea che si possa distinguere fra guerre sporche e guerre pulite mentre secondo il Pansa-pensiero “tutti i conflitti armati sono sporchi delle vite sottratte a chi vi partecipa e ne rimane coinvolto”.
Doveva arrivare lui, in questa povera e dissestata Italia, a toglierci l’ultima certezza che ci regge in piedi, seppur a stento: la Resistenza, madre della Costituzione e della democrazia.
No caro Pansa la guerra è sporca e non ce lo dovevi venire a dire tu. Lo sapevamo bene ma noi che peniamo per tirare avanti, non nascondiamo la realtà dietro la trappola demagogica che stai agitando da anni.
Per noi parlano i militari varesini prigionieri in Germania e Polonia, i deportati nei lager del Reich, i morti di Auschwitz (Clara Pirani Cardosi, Ada Provenzali Bianchi, Leone Tapiero, Paola Sonino), di Dachau (Calogero Marrone), di Bergen Belsen, di Mauthausen (Molteni e Vergani), Copelli, Trentini, Ghiringhelli, fucilati in calzoncini corti alle Bettole sotto la pioggia d’autunno, benedetti da don Tornatore (“ragazzi siate sereni, vi attende a braccia aperte la Madonna del Monte che è di fronte a voi”), i capi partigiani Marcobi e Vanetti, uccisi a tradimento, Pagliolico, Bai, Brusa, Ferrari, Motta, Contini, i cinque di Brissago Valtravaglia, i quattro della Gera, gli uomini di Croce sul San Martino. Parlano i torturati di “Villa Triste”.
Parlano tutti gli altri, di cui, preso dall’angoscia, ho dimenticato il nome.
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