Le Primarie del PD trovano ampio spazio nei mass media: non passa giorno però che stampa e tv non ci diano una visione eccessivamente riduttiva e caricaturale di quello che sta avvenendo dentro il maggior partito italiano. Non si parla d’altro che di rissa, alterchi, “duelli rusticani” tra Renzi e D’Alema, Renzi e Bersani, Renzi ricorre al garante della privacy ecc., mentre Vendola sarebbe il terzo incomodo. Certo non è che non ci siano polemiche e scontri anche molto duri, ma questo modo di rappresentare il dibattito non aiuta a comprendere qual è la vera natura del contendere all’interno del PD e del Paese.
All’origine di tutti gli scontri e polemiche – dice Piero Ottone su la Repubblica – “c’è Matteo Renzi: un giovane (anche se non più giovanissimo) dotato di qualità notevoli, soprattutto pieno di slancio, capace di esercitare una grande attrazione sulle folle. Altrove ne avrebbero fatto tesoro: lo avrebbero subito inquadrato, per trarre beneficio dalle sue qualità. Da noi, a giudicare dalle sue reazioni, non lo si è fatto”. Ecco, a questo punto sorge spontanea la domande: perché non lo si è inquadrato tra i gruppi dirigenti nazionali?
La risposta al quesito posto sta nella nascita stessa del PD, che sin dalla sua costituzione non è riuscito ad unificare e dare una solida identità alle varie tradizioni politiche in esso confluite, finendo per essere ostaggio delle varie correnti. Questo vizio d’origine delle correnti, non solo non ha permesso di sciogliere alcuni nodi teorico-politici essenziali a definire una linea unitaria condivisa, ma ha impedito anche la nascita di un dibattito vero e il riconoscimento del merito.
Renzi è causa e sintomo di una classe dirigente del PD autoreferenziale ed inamovibile che non ha saputo rinnovarsi per adeguarsi ai tempi nuovi, impedendo di fatto un rinnovamento generazionale del suo gruppo dirigente tradizionale. A spianare la strada a Renzi a sindaco di Firenze non sono state solo le sue capacità comunicative e relazionali, certamente notevoli, ma soprattutto le divisioni all’interno del PD, che ha presentato alle primarie candidati invisi, non solo alla cosiddetta “società civile”, ma anche agli stessi iscritti al partito, con il risultato che Renzi ha vinto le primarie con facilità.
Nessuno ha fatto un dramma quando Renzi è entrato in campagna elettorale per essere nominato sindaco di Firenze, né tantomeno quando è diventato sindaco. Del resto, quasi tutte le primarie locali: da Milano a Palermo, da Napoli a Genova, si sono risolte con un insuccesso clamoroso dei candidati ufficiali del partito. Perché ora la presenza ingombrante di Renzi alle primarie crea tanto rumore ed allarme? La risposta sta nella diversa posta in gioco rispetto ad allora e nelle stesse insolite e dirompenti modalità della “discesa in campo”del sindaco. Infatti la sua “rottamazione” gli ha permesso di avere visibilità sui mass media e lo ha messo, come dice Occhetto, “in modo semplice benché discutibile e rudimentale in sintonia con una richiesta diffusa nel paese di rinnovamento”. C’è da aggiungere in oltre però che finché è rimasto sindaco di una grande città, come Firenze, lontana dal “santuario” politico di Roma, non ci sono stati problemi; ma ora che Renzi con la sua volontà di rottamare i “vecchi” dirigenti ha lanciato la sfida per la leadership e mira a contendere la guida nazionale del partito, tutto si complica drammaticamente.
Qui siamo in presenza di qualcosa di più profondo di un semplice scontro generazionale tra “giovani e vecchi:” la posta in gioco è la stessa natura e sopravvivenza del PD, del suo gruppo dirigente. Qui si vuole “l’azzeramento finale della storia delle componenti popolari che hanno fatto la storia civile, moderna ed avanzata del Paese” – come dice Mario Tronti. E di questo si tratta e di nient’altro; bisogna averne consapevolezza e reagire in tempo.
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