A un anno dalla morte di Muammar Gheddafi, linciato presso Sirte il 20 ottobre 2011, nulla è tornato alla normalità in Libia salvo la produzione e l’esportazione di idrocarburi, chiave dell’economia del Paese. Qualunque realistica riflessione al riguardo non può che prendere le mosse da tale dato di fatto, magari poco simpatico ma tanto contraddittorio quanto ineludibile. E ciò vale in modo del tutto particolare per l’Italia dal momento che il principale acquirente di idrocarburi libici è l’ENI. Tanto forti sono questi interessi e tanto radicate sono le relazioni conseguenti che l’esportazione di idrocarburi libici verso l’Italia, inevitabilmente interrotta nel pieno della rivolta contro Gheddafi, era già ripresa il 26-27 settembre 2011, dunque oltre un mese prima che egli venisse catturato e ucciso; e ben presto era tornata ai suoi normali livelli mentre ancora si stava combattendo.
A guerra finita i tentativi in primo luogo della Francia di modificare lo status quo del mercato libico degli idrocarburi sono quasi del tutto falliti. Piaccia o non piaccia, bisogna riconoscere che nel caso della crisi libica l’ENI è tornata a fare politica estera a tutela di nostri interessi nazionali colmando le lacune del governo di Roma del momento. Dopo aver provocato la guerra Sarkozy è così rimasto con un pugno di mosche: un fallimento che ha contribuito in modo determinante a quella sua sconfitta alle elezioni proprio per evitare la quale si era buttato nell’avventura libica trascinando dietro di sé il resto della Nato, Italia compresa.
Giorni fa, nel corso di un seminario svoltosi a Londra, nel presentare la sua attività nel corrente anno e le sue prospettive per l’anno prossimo l’Eni ha così potuto annunciare che i suoi giacimenti in Libia stanno adesso regolarmente producendo ed esportando 240 mila barili di petrolio equivalente al giorno. Tenuto conto delle dimensioni di tale flusso e di tutto ciò che questo implica sul piano tecnico e sul piano della vita quotidiana del personale impiegato questo significa che dei grandi impianti di estrazione e di trasporto possono attualmente funzionare in Libia in tutta sicurezza. Frattanto però continua a non esserci nel Paese né Stato né governo: il territorio libico è divenuto un mosaico di signorie locali a base tribale, di città o anche di singoli quartieri urbani che in qualche modo si autogovernano o dotandosi di proprie milizie create ex novo o stringendo patti con milizie esistenti che finiscono per assumere un ruolo analogo a quello che le compagnie di ventura avevano nell’Italia rinascimentale. Non solo dunque la fine del regime di Gheddafi non ha risolto il plurisecolare, anzi millenario antagonismo fra Tripolitania e Cirenaica, ma ha aperto il varco a frammentazioni ancor più minute.
Stando così le cose il nostro governo farebbe bene a riassumere nelle relazioni italo-libiche il ruolo che comunque non ha senso abbia un’azienda, per grande e importante che sia. È evidente che non si arriva da nessuna parte se si pretende di introdurre in Libia la democrazia di tipo occidentale basata sul principio “una persona/un voto” (che peraltro anche in Occidente è comparsa sulla scena da meno di tre secoli, e si è diffusa da meno di un secolo). Se proprio sono costretti popoli come quello libico fanno fina di adottarla, ma con i risultati pratici che si vedono. Sarebbe molto più lungimirante fare verso la Libia una politica di sviluppo economico concordato grazie alla quale provocare quello sviluppo sociale che in seguito potrà essere alla base di proporzionati sviluppi in tema di democrazia. Grazie ai redditi delle sue esportazioni di idrocarburi la Libia ha un reddito pro capite simile a quello di paesi come la Serbia o come il Perù. È pertanto in grado di auto-finanziare il proprio sviluppo. Non le mancano i soldi, ma le competenze e le capacità organizzative. È in questo che va aiutata, e il nostro Paese può farlo più di ogni altro.
Robironza.wordpress.com
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