In Italia, il Paese che ha inventato il trasformismo politico, i partiti scompaiono facilmente ma le loro classi dirigenti sono inamovibili; negli ultimi vent’anni, dietro i personaggi di Berlusconi e di Prodi, si è riciclata la classe dirigente della prima Repubblica, il che spiega perché la seconda non è mai nata e i governi non sono stati in grado di realizzare alcun cambiamento. Nelle grandi democrazie occidentali l’opinione pubblica confida nel patrimonio culturale e di esperienza dei partiti democratici ma li obbliga a rinnovare spesso il ceto dirigente.
La colpa è anche degli italiani che si accontentano delle apparenze e che non disdegnano i giochi di prestigio e i loro protagonisti. Il clamore suscitato da Matteo Renzi con l’invito alla rottamazione dei vecchi dirigenti trova il consenso dei cittadini ma non sfugge alla logica gattopardesca del “tutto deve cambiare affinché tutto rimanga come prima”; infatti il giovane sindaco di Firenze ha capito che il mondo è mutato ma non ha l’esperienza necessaria per guidare tale cambiamento; anche lui si muove nella logica dell’ “uomo della Provvidenza” capace di venire a capo della complessità sociale, ma insiste nel percepire la politica come una avventura solitaria che esonera i cittadini dall’assumere le loro responsabilità verso il bene comune.
Karl Marx aveva affermato che, di regola, la storia non si ripete e quando accade il contrario la tragedia si trasforma in farsa; in Italia la metamorfosi dei “capi” si è dapprima materializzata nel duce Mussolini e, successivamente, nell’imprenditore Berlusconi e ora nel comico Grillo.
I partiti hanno creato un sistema basato sul professionismo politico; il processo decisionale è accentrato in un ristretto gruppo dirigente, quasi sempre cooptato, che decide prescindendo dalla base degli iscritti, ridotta a pura coreografia ad uso mediatico.
Il Partito Comunista – ha scritto il filosofo Biagio De Giovanni – ha costruito un sistema in cui il testimone passava di volta in volta allo stesso gruppo. Questo gruppo ha finito per staccarsi dalla società, ha interpretato qualunque svolta come la chiave per la propria continuità. È divenuto incapace di pensare in modo diverso la storia italiana che si propone, ancora oggi, con l’alleanza tra Bersani e Vendola. Il problema non è la generazione anagrafica ma la mancanza di una nuova generazione culturale; non sono i dirigenti vecchi ma i dirigenti invecchiati vanamente al potere.
Quando un dirigente è giunto a fine carriera è difficile, spesso crudele dirgli: adesso sei vecchio, vai a casa!
Soprattutto nel caso in cui l’età anagrafica non corrisponde alle capacità fisiche e intellettuali dell’interessato e questi è stato un pezzo importante della storia di quel partito.
Il professionismo è una risorsa importante della politica perché consente di affidare la gestione della cosa pubblica a persone preparate e competenti e tale capacità li protegge dall’influenza degli umori variabili dell’elettorato. Ma il professionismo, come aveva notato Max Weber, tende a creare una burocrazia di partito che si auto-perpetua e tende a sovrapporsi ai militanti.
Il professionismo deve essere contemperato con il volontarismo di quelli che si impegnano per motivi ideali e non per fare carriera, godendone i vantaggi. In questo modo non vi sono dirigenti insostituibili ma si realizza un ricambio graduale che non crea traumi.
D’Alema e Veltroni, anche sotto l’incalzare della campagna per la “rottamazione” portata avanti dal giovane Matteo Renzi, sono diventati i bersagli della generalizzata voglia di cambiamento perché sono stati per troppo tempo gli arbitri indiscutibili del partito dove gli iscritti non contano nulla, sono il quadro necessario alla politica-spettacolo.
Gli iscritti sono comparse auto-soddisfatte del loro conformismo e della loro condizione gregaria: anche questa è una condizione di vetustà del partito che non si risolve con la cacciata dei vecchi capi. Comparse sono anche quelli che riempiono le piazze per ascoltare gli “sfottò” di Grillo il cui movimento che si basa sui luoghi triti del populismo ha raccolto nei sondaggi il venti per cento dei consensi. “Italia pentita sempre – diceva Alessandro Manzoni – ma cangiata mai”.
Questo modo di intendere il rinnovamento comporta lacerazioni insanabili che avranno riflessi sull’intero contesto politico; la lotta in atto nel Partito Democratico è generazionale, tra quarantenni e sessantenni, ma non ha come obiettivo alcun specifico programma; essa dimostra che il partito non ha valori condivisi né un progetto comune, è un partito alla ricerca di una identità.
Il rinnovamento che si attua con l’umiliazione dei protagonisti mette in discussione la continuità delle storie politiche e impedisce che le tradizioni culturali, i saperi (che non si imparano sui libri) si trasmettano da una generazione all’altra.
L’annunciato ritiro dal Parlamento di Veltroni, D’Alema e altri non costituisce vittoria per i novatori ma è l’indice di una propensione alla vendetta, ai regolamenti dei conti, che allignano in tutti i “partiti chiusi”.
Bersani è alla ricerca di un improbabile socialismo, Renzi invece ha capito che il mondo è cambiato e non ha difficoltà ad ammettere che in questo posto si trova benissimo ma, alla fine, sarà Vendola a determinare la vittoria del primo con la conseguenza che il Partito Democratico si sposterà ulteriormente a sinistra più di quanto non lo sia ora.
Ricordo il monito di Cesare Beccaria: “Non c’è libertà ogni qualvolta le Leggi permettono che l’Uomo cessi di essere persona e diventi cosa”. Le persone non sono “cose” da spostare a piacimento e da distruggere quando diventano ingombranti: se è questa la filosofia del Partito Democratico c’è poco da sperare che esso sia un fattore di rinnovamento e di sviluppo della società italiana.
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