Per quattro volte la voce del Capo dello Stato Giorgio Napolitano è finita nelle intercettazioni dell’inchiesta sulla trattativa mafia-Stato o pezzi dello Stato. Questo è avvenuto fra il 24 dicembre 2011 e il 6 febbraio 2012. Fu un fatto casuale, indiretto, affermano i magistrati della Procura di Palermo, il capo Messineo, e gli aggiunti Ingroia e Di Matteo nella “memoria” di trentotto pagine che hanno inviato, sostenuti dai loro legali Alessandro Pace (fra i massimi costituzionalisti italiani), Giovanni Serges e Mario Serio, alla Corte Costituzionale con cui si sono costituiti in giudizio nel conflitto di attribuzioni sollevato quest’estate dall’Avvocatura dello Stato per il Quirinale.
Esco dal mio seminato (in realtà ci torno per l’occasione) ma credo che un po’ di chiarezza su questo punto vada fatta per impedire che, sotto spinte emotive e interessate, continuino a circolare notizie non vere e si fomenti lo scontro a tutti i costi.
Sarà la Corte a decidere, anche se appare molto difficile che essa Corte, massimo presidio della Costituzione, smentisca il Capo dello Stato, l’altro baluardo della somma Carta. Non è infatti pensabile che uno sia posto contro l’altro (Corte e Quirinale) perché questo significherebbe aprire voragini impensabili in un Paese malato alla radice. Ma questo è altro discorso.
Il titolare delle intercettazioni era, come è noto, l’ex ministro del’Interno Nicola Mancino nella sua veste di testimone (allora) dell’inchiesta. Ora è imputato per “falsa testimonianza”.
I magistrati sono certi di non aver violato alcuna prerogativa del Capo dello Stato: il loro obiettivo è quello di far ritenere “inammissibile” il ricorso quirinalizio. Dicono i PM per bocca dei legali: “Si chiede di ordinare l’immediata distruzione delle intercettazioni telefoniche casuali del Presidente della Repubblica che non rientra nei poteri processuali del PM”.
Infatti. Deve essere il GIP, un giudice terzo, a stabilirlo (ma al Quirinale nessuno lo sapeva?), dopo un’eventuale udienza alla presenza dei dodici difensori delle parti, tante sono, che potrebbero al limite anche chiedere di utilizzarle nell’economia dibattimentale. Non sono infatti un “segreto di Stato”.
Che sinora si sia sostenuto un po’ “alla bersagliera” che i PM dovessero eliminare le registrazioni, fra l’altro mai trascritte e chiuse in una cassaforte della Procura di Palermo (oltre che giudicate penalmente irrilevanti), è la dimostrazione, oltre che di ignoranza sul tema, della volontà di colpire gli inquirenti impegnati su una frontiera delicatissima. Questo non da parte del Quirinale e viceversa, che hanno espresso reciprocamente stima.
C’è di più, nel documento reso pubblico dalla scorsa settimana. I magistrati non ammettono alcuna corsia preferenziale per il Quirinale che, giova ricordarlo, si mosse in difesa di una questione di principio (tutela della carica) e non per ragioni personali.
È scritto con nettezza: “Un’immunità assoluta potrebbe essere ipotizzata per il Presidente della Repubblica solo se, contraddicendo i principi dello Stato democratico-costituzionale, gli si riconoscesse una totale irresponsabilità giuridica anche per i reati extrafunzionali”. Sostengono ancora i giudici: “Una simile irresponsabilità finirebbe per coincidere con la qualifica di “inviolabile” che caratterizza il sovrano nelle monarchie ancorché limitate; una inviolabilità che – tenuta distinta dalla inviolabilità garantita dallo Statuto e dalle leggi a tutti i cittadini – implicava la totale immunità dalla legge penale nonché dal diritto privato quanto a particolari rapporti”.
Chi siede al Quirinale non è un re. E, infatti, nella memoria, non manca un riferimento al Re, a quello di Spagna: “Una legittima intercettazione di una conversazione telefonica nella quale accidentalmente figuri il Re come mero interlocutore non equivale a investigare la persona del Re” e quindi “la registrazione della conversazione ben potrebbe essere valutata dal giudice istruttore”.
Conclusione: il Presidente della Repubblica non è stato intercettato direttamente ma nelle conversazioni del “privato cittadino” Mancino come è oggi, non avendo cariche istituzionali.
Le telefonate intercettate di Mancino sono state 9295 su sei utenze, ha fatto sapere il pool di Antonio Ingroia, completato da Nino Di Matteo, Lia Sava (il magistrato che Berlusconi nel recente interrogatorio a Roma sulle donazioni a Dell’Utri non mancò, si dice, di magnificare per il suo charme), Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
Il 24 dicembre 2011 alle 9,40 Mancino chiamò il Colle e parlò per tre minuti. Il 31 dicembre alle 8,48 i due parlarono per sei minuti. La terza conversazione “in entrata” sul telefonino di Mancino è del 13 gennaio 2012 alle 12.52. Durata di quattro minuti. “In questo caso – si legge negli atti – Mancino aveva chiamato prima il centralino del Quirinale chiedendo di parlare col Napolitano”. Il 6 febbraio l’ultimo squillo alle 11,12 per cinque minuti.
Nessuna telefonata, come detto, è stata trascritta. Il contenuto dei colloqui è tuttora segreto. Il 4 dicembre la Corte Costituzionale affronterà il caso in udienza. Intanto i legali del pool sottolineano nuovamente un punto che appare basilare: non debbono essere i PM a distruggere i nastri come ha invocato il Quirinale ma lo deve fare un giudice terzo. Errato invocare da loro un atto che la legge loro vieta.
Un po’ come quando si dice, anche su questo giornale, di Di Pietro, il “giudice giustiziere”, che “ha arrestato” decine di persone. Di Pietro non è un giudice, è un PM. Di Pietro ha chiesto l’arresto. Il giudice Ghitti (allora GIP a Tangentopoli), esaminati gli atti, li ha autonomamente emessi. Di Pietro aveva visto giusto.
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