“Io non sapevo che ci fosse un paese chiamato Suna. Questa mattina mi giunse una lettera nella quale mi si esponeva la vita santa e i meriti edificanti del professor Contardo Ferrini, che, nato a Milano, ha insegnato pandette all’università di Messina, di Modena e di Pavia e poi è morto a Suna. Profondo cattolico, era circondato dal rispetto e dalla venerazione degli studenti e anche dei suoi colleghi universitari…Nella lettera di cui vi ho parlato mi si prega d’introdurre la causa di beatificazione del Ferrini. Poco fa ho raccontato questo fatto a monsignor Spandre e, per una combinazione provvidenziale, monsignor Spandre era in compagnia e mi ha presentato il parroco di Suna, proprio il sacerdote che assistette il prof. Ferrini al momento della sua morte. Vi ho detto ciò per farvi considerare che sono molti i santi nella mente di Dio, e che bisogna pregare il Signore che li glorifichi…sarei ben lieto di elevare agli onori dell’altare e di proporre a modello un santo, professore di università!”.
L’anno era il 1909 e il pontefice desideroso di avviare la causa di beatificazione del professore universitario Contardo Ferrini era Pio X. L’occasione di quel discorso pronunciato nella sala del concistoro era stata offerta dal pellegrinaggio solenne a Roma, organizzato dalla devozione dei Piemontesi in occasione del giubileo episcopale del santo padre e guidato da monsignor Luigi Spandre, allora vescovo ausiliare del cardinal Richelmy di Torino e futuro vescovo di Asti.
Tra i fini del pellegrinaggio vi era quello di sollecitare al pontefice la prosecuzione dei processi di beatificazione di tre, allora solo venerabili, piemontesi: Cottolengo, don Cafasso e don Bosco. Ma proprio quella mattina, come lo stesso Pio X riferì ai pellegrini, era giunta la lettera di un amico e devoto del Ferrini, il professor Olivi, che, testimoniando anche di certi episodi miracolosi legati alla devozione per lui di alcune persone in difficoltà, invocava, al fine della beatificazione di quell’amato e venerato collega, la benevola attenzione del santo padre. Caso voleva, come abbiamo visto, che tra i presenti fosse anche il parroco di Suna, il sacerdote Bongiovanni, che guidava la parrocchia da ben ventidue anni e aveva avuto occasione di conoscere e frequentare lungamente la famiglia Ferrini e lo stesso Contardo.
“Padre santo-non esitò a riferire il Bongiovanni al papa che l’interrogava- non solo l’ho conosciuto, ma ho anche avuto il bene di goderne sempre l’amicizia e la confidenza, anzi a me è toccato il doloroso ufficio di assisterlo nell’ultima malattia che lo trasse a morte il 17 ottobre 1902…Contardo Ferrini era veramente un santo e come tale era ritenuto da tutta la mia popolazione, che lo venera per gli esempi straordinari di virtù lasciati”. Il Bongiovanni appena rientrato dal pellegrinaggio nella sua parrocchia di Suna, avrebbe poi redatto a memoria futura una relazione scritta di quell’incontro con il pontefice, avvenuto il 30 maggio del 1909.
Suna, luogo dell’anima
I legami dei Ferrini con Suna, la soleggiata e graziosa località del Verbano confinante con Pallanza e affacciata sulle rive del Lago Maggiore- di fronte allo splendore del golfo e delle isole Borromeo- erano iniziati parecchi anni addietro. Nel 1860 il padre del nostro, Rinaldo, ingegnere e scienziato, insegnante al Regio Istituto Tecnico e futuro docente all’Istituto Tecnico Superiore di Milano, discendente da un’antica famiglia del patriziato locarnese, decise di acquistare lì una casa di villeggiatura. Desiderava trascorrervi in serenità le ferie estive con la famigliola: la moglie, Luigia Buccellati, e il piccolo Contardo. Il primogenito del professore aveva allora poco più di un anno.
La villetta, dislocata su due piani e affacciata sul lago, era diventata ben presto luogo prediletto di soggiorno della famiglia. E anche Contardo nel tempo avrebbe imparato, come il padre, ad amare sempre più quel posto, da cui si godeva un’ impareggiabile vista sui laghi e sui monti, tanto da dichiararsi, in una lettera indirizzata in data 14 ottobre 1883 all’amico carissimo Vittorio Mapelli, “innamorato di questo meraviglioso paese”. Nei momenti liberi dagli impegni di lavoro correva a ritemprarsi dalle fatiche consuete, senza mai tuttavia abbandonare le sue carte e gli studi che gli stavano a cuore: tanto che la luce della sua camera al piano superiore della casa rimaneva accesa sino a tarda notte.
Quando aveva un attimo di tempo libero gli piaceva bagnarsi nelle acque del lago approfittando delle ore più tranquille, quelle meno frequentate dai pochi bagnanti di allora: gli bastava traversare la strada per raggiungere la piccola spiaggia che fronteggiava il lago e immergersi nell’acqua e gustare la gioia di quei momenti di spensieratezza, sulla liceità dei quali la severità del suo animo lo spingeva a interrogarsi. Ma più che sulla spiaggia, gli abitanti di Suna e Pallanza erano soliti incontrarlo, in occasione delle funzioni religiose, nelle chiese del luogo: la preferita parrocchiale di Pallanza intitolata a San Leonardo, ma anche la splendente basilica di Madonna di Campagna, o la più raccolta chiesina di Suna, dedicata a santa Lucia, dove trascorreva ore assorto in preghiera.
Quest’ultima, che si trova a breve distanza dall’abitazione dei Ferrini, lungo la strada che costeggia il lago, custodisce ancora oggi la reliquia del cuore di Contardo: e la gente del posto racconta con orgoglio che il cuore del professore diventato beato fu trovato intatto quando, a molti anni dalla morte, venne prelevato dalle sue spoglie per essere conservato in una teca d’argento.
A Suna il Ferrini amava la vita ritirata, prediligendo le chiacchiere in famiglia e i giochi coi nipotini, e disertava quasi sistematicamente le comparse in società, che, a detta di chi lo conosceva bene, gli davano noia e, a volte, anche un po’ di disgusto. La villetta paterna, col suo piccolo giardino, rappresentava per lui il prediletto rifugio e luogo di lavoro, ed era insieme punto di osservazione di quella natura che tanto amava e che gli ispirava i più alti sentimenti. Ancora oggi una targa apposta sul muro della casa attesta il senso di quel profondo legame che univa il professore a Suna e alla sua dimora:“In questa casa paterna/ Contardo Ferrini/ posando dagli studi che lo facevano sommo/ nel giure romano/contemplava sulle rive ridenti/la divina infinita armonia/che sol disseta gli spiriti gentili”.
Non si meravigliò dunque più di tanto il parroco Bongiovanni quando un giorno si sentì richiedere da Contardo, ancora giovane e in buona salute, di essere seppellito nel piccolo cimitero di Suna. La richiesta del Ferrini nasceva dall’amore grande che nutriva per quella sua patria d’elezione e insieme dal desiderio di essere sepolto tra la gente semplice e devota di Suna. “Qui, quando il popolo va la domenica a messa-disse al Bongiovanni- passa vicino al camposanto e prega pei poveri morti: pregheranno anche per me, e la sera dei dì di festa anche di me si ricorderanno a Dio”.
Né il Ferrini avrebbe dovuto attendere troppi anni per trovare definitiva pace nella sua Suna.
Il settembre del 1902 vi si recò come ogni anno- ormai seguito da quella sua fama di studioso illustre e di santo- con l’intenzione di riposarsi dopo un periodo di cattiva salute. In realtà lo attendevano anche qui improrogabili impegni di studio, ai quali non voleva sottrarsi: l’edizione del Tipucito, quella di un libro sul diritto siro-romano e un lavoro sulle servitù prediali. Si lasciò comunque tentare da una gita alpina in compagnia dell’amico Albasini-Scrosati e, fin dall’inizio dell’ascensione verso la Valle Anzasca e il San Martino, fu assalito da persistenti dolori al ventre. Tuttavia l’ escursione non fu interrotta e parve al Ferrini di poter portare a compimento quel suo intento di arrivare fin sulla cima che aveva scelto come meta. Stanchi e assetati per il cammino, strada facendo i due amici si dissetarono poi con le acque di un ruscello che, se ne accorsero in un secondo momento, passavano per terreni concimati. Una quindicina di giorni dopo il Ferrini accusò i primi sintomi di un diffuso malessere e nel giro di poco tempo gli si sviluppò quello che fu ben presto diagnosticato come tifo. Morì il giorno di sabato 17 ottobre, dopo un apparente miglioramento che aveva fatto sperare nella risoluzione del caso. Se ne andò, tra le pareti della sua dimora prediletta, assistito dalla pietà di tante persone comuni, amici, parenti e religiosi, tutti uniti da un rimpianto sincero e profondo per l’uomo e l’amico, per lo studioso e per il testimone autentico di una fede vissuta con l’esempio di un’ intera vita.
Così è riferito il congedo di Suna e degli amici ne La vita del professor Contardo Ferrini narrata da Mons. Carlo Pellegrini: “ Il 20 0ttobre, lunedì, le campane delle chiese di Suna diffondevano pei campi e per l’onde i loro flebili rintocchi, e i piroscafi che si fermavano a Suna versavano un fiume di passeggeri venuti da Pavia, da Milano, pel mesto rito. C’era il senatore Camillo Golgi, rappresentante l’ateneo pavese, che portava le condoglianze del ministro della pubblica istruzione, il prof. Luigi Gabba, il marchese Carlo Ottavio Cornaggia, l’avvocato Sartorio, vice presidente del tribunale, il professor Ulisse Gobbi, rappresentante l’Istituto Lombardo di scienze e lettere, l’ingegner Alberto Ratti per l’ufficio tecnico municipale, il cavaliere Giovanni Duroni pel Collegio reale delle fanciulle, il signor Giuseppe Sessa della Società di San Vincenzo; vi erano molti preti, fra essi monsignor Luigi Colombo e il reverendissimo prevosto di San Marco, Giuseppe del Torchio, e signori e signore senza numero.
Alle ore undici principiò la mesta funzione: tutta Suna era accorsa, col sindaco, i consiglieri comunali, le società operaie, le scuole, l’asilo infantile. Pallanza vi aveva mandato un largo contributo di persone, il deputato del collegio on. Giuseppe Cuzzi e il sottoprefetto: era un corteo interminabile e su tutti i volti era una mestizia calma e grave. Il corteo si svolse dalla casa Ferrini alla Madonna di Campagna, dove fu cantata la Santa Messa. Poi al cimitero. Contardo aveva voluto che i suoi funerali fossero modesti, senza pompa di fiori e senza vanità di discorsi. Fu obbedito”.
Milano, la città natale
La vita di Contardo aveva avuto inizio il 4 aprile del 1859, a un anno esatto dal matrimonio dei genitori, in una decorosa casa di quattro stanze presa in affitto dal padre di Contardo in via Passarella, nella “Milano vecchia”. Era una Milano fatta di gente quieta e rispettosa, gente di ceti diversi, gente modesta o della media e alta borghesia, come la famiglia in cui il Ferrini nacque: ma era pur sempre una Milano non troppo ricca né pretensiosa, le cui dimore, in parte destinate ad essere abbattute, attestavano di un vivere mediamente decoroso, ma soprattutto improntato a rapporti di buon vicinato e umanità, che si sarebbe fatto rimpiangere già nei primi decenni del secolo successivo. Lo stesso monsignor Carlo Pellegrini spendeva al proposito parole di rimpianto e nostalgia nelle pagine della sua ampia ricerca biografica: “Eppure quella Milano vecchia, che scompare sotto l’inesorabile piccone demolitore, a noi milanesi, cui s’inargentano i capelli, piaceva: noi l’amavamo e la rimpiangiamo ora quasi estinta: ci pare che strappino un brano del nostro cuore e delle nostre carni, quando atterrano una delle care memorie. E’ nostalgia questo nostro sentimento? Io non so e non cerco. Il nostro Duomo lo vedevamo allora erigersi gigante nella maestosa sua gloria marmorea sopra quelle casupole e catapecchie che s’addossavano al suo piede; adesso invece ci pare meno grandioso e meno bello, chiuso com’è fra i portici della Rinascente, che non armonizzano con lui: anche sulla piazza larga e bella quei tranvai, che fanno la giostra attorno al monumento di Vittorio Emanuele ci sembrano una stonatura. Allora per le nostre contrade passavano le brianzole col nimbo delle spadine d’argento sul capo e, al Manzoni, vecchio e curvo con le mani dietro la schiena, tutti facevano di cappello, come a un amico. Allora Milano aveva la sua fisionomia bonaria, le sue feste chiassose, i suoi carnevaloni, le sue macchiette, la mama di gatt, el pacia sass, el barchett de Buffalora, che in una giornata o poco meno ti conduceva a Pavia. I buoni ambrosiani d’allora non avevano fretta, amavano il divertimento e il lavoro, la religione e la libertà. Adesso Milano è come tutte le altre città grandi e vi senti tutte le lingue e tutti i dialetti i del mondo e, il meneghino, raro lo senti”. Non era certo, la Milano in cui Ferrini aveva visto la luce, quell’ idillio descritto dal monsignore con pennellate di nostalgico lirismo: le alterne vicende politiche, l’oppressione straniera, le contraddizioni sociali e le difficoltà economiche di una economia territoriale con forti contraddizioni ed esigenze di crescita erano riuscite da tempo a impensierire e a dare del filo da torcere anche ai più autorevoli e protetti tra i milanesi, non escluso il Manzoni che in realtà, come si sa, a un certo punto della sua vita aveva dovuto lasciare Milano e esiliarsi volontariamente a Lesa, sulla sponda piemontese del Verbano, in attesa di tempi migliori.
La Milano del piccolo Ferrini, primogenito di quattro figli, è comunque una Milano già diversa da quella cui era approdata la famiglia del padre, oriunda di Berzona in valle Ozernone e discesa nel secolo XVIII a Locarno e da Locarno poi nel capoluogo lombardo. Nel capoluogo lombardo Contardo, bambino vivace e poi adolescente di intelligenza precoce, inizierà la sua eccellente carriera scolastica. Il padre lo iscrisse dapprima all’istituto Boselli. Era la migliore scuola della borghesia di allora – fondata da Antonio Boselli, vittima dell’indipendenza italiana nel 1848- e Contardo si segnalò subito quale allievo impegnato e particolarmente dotato. Sempre sotto la guida del padre, uomo severo e religiosissimo col quale ebbe tuttavia rapporto di grande comprensione e tenerezza, si iscrisse contemporaneamente alla Confraternita del Ss. Sacramento e seguì i primi studi biblici tenuti dall’abate Ceriani, dotto prefetto dell’Ambrosiana. La biografia ferriniana ricorda anche che il giovanissimo e promettente allievo fu già allora in contatto con il famoso geologo Atonio Stoppani, tra i migliori amici di papà Rinaldo. Fu lo Stoppani a trasmettergli quell’ amore per la natura che avrebbe rappresentato una costante della sua vita. Il Ferrini compì poi gli studi superiori al liceo Beccaria, dove, nel 1876, ottenne il diploma con la massima lode e con segnalazione in latino e in greco e, naturalmente, il pieno incoraggiamento a intraprendere gli studi universitari.
Fu scelto l’ateneo pavese, in quanto lo zio materno, Antonio Buccellati, era preside della facoltà di giurisprudenza. Ospite in quegli anni del collegio Borromeo, dove era entrato gratuitamente il 17 novembre 1876, il Ferrini era guardato dai compagni non senza punte di sarcasmo o di accesa curiosità, per la sua diligenza e per quella devozione religiosa, che affiorava con evidenza contrapponendosi alla voglia di divertimento e di goliardia dei compagni. Nel corso della causa di beatificazione, tra le numerose testimonianze fu raccolta anche quella di qualche compagno di corso, che così si esprimeva: “Il suo spirito nelle cose di pietà era tanto superiore al nostro, che noi non potevamo seguirlo: alcuni lo compativano, molti lo ammiravano, tutti lo stimavano perché negli studi riusciva sempre il primo o tra i primi, non menandone vanto…i compagni lo chiamavano S. Luigi Gonzaga, per denotare la sua purità e la sua pietà”. Era un paragone, quello con il Gonzaga, che il Ferrini si era guadagnato anche a Suna, suscitando l’ammirazione( e qualche volta anche la superficiale ilarità) dei coetanei che lo osservavano mentre entrava ed usciva di chiesa con una compunzione impensabile per un giovane. E in chiesa, ma anche nelle ore della preghiera domestica, inginocchiato nel segreto della sua camera, appariva quasi rapito ed estraneo a quanto gli succedeva intorno. A volte erano gli stessi parenti o amici che, presi da curiosità buona, già presaghi della straordinaria spiritualità di chi gli stava intorno, indugiavano a spiarlo dal buco della serratura mentre si abbandonava al colloquio col suo Dio.
Gli piaceva anche mortificarsi nel cibo, nonostante in quegli anni non fosse in ottime condizioni di salute. Un inserviente del collegio Borromeo di Pavia ricordò, nella deposizione al processo informativo per la causa di beatificazione, che spesso Contardo chiedeva di ricevere la colazione in camera: questo per evitare di mostrare agli altri i digiuni cui si sottoponeva contro il parere dello stesso rettore. In Quaresima si faceva mandare da casa dei datteri, che mangiava per colazione, lasciando ciò che dava il collegio. E, nonostante non fosse obbligato al digiuno, non avendo compiuto i 21 anni che l’ultimo anno della sua permanenza al collegio, lasciava spesso i cibi considerati di grasso nel piatto, di venerdì e anche di sabato. Prima e dopo il pasto era solito farsi il segno della croce, nonostante il suo rimanesse un esempio isolato tra i commensali.
Forse anche per questi suoi atteggiamenti, così lontani dalle inclinazioni dei compagni di collegio, il Ferrini a Pavia strinse piuttosto amicizia con amici che non gli erano compagni di studi, come Vittorio e Paolo Mapelli, come E. Cappa e C. Secchi. E trovò risposta alle sue inquietudini e ai grandi interrogativi spirituali attraverso la guida di monsignor Riboldi, vescovo di Pavia e futuro cardinale, che lo consigliò nelle scelte di vita. Dopo lunghe esitazioni il Ferrini escluse l’orientamento ecclesiastico e imboccò, sulle orme paterne, la strada dell’insegnamento, intendendola come apostolato. Si laureò il 21 giugno 1880 con un tesi stesa in greco e tradotta in latino( quid conferat ad iuris criminalis historiam Homericorum Hesiodeorumque poematum studium) che “stupì gli esaminatori per la rara maturità metodologica e l’ampiezza della trattazione, valendogli la classificazione di ‘Assoluto con lode’ e la pubblicazione( Berlin 1881), concessa per la prima volta a Pavia in quella facoltà”. Fu inoltre premiato dal ministero della Pubblica Istruzione e dalla Cassa di risparmio delle province lombarde con una borsa di studio per un biennio di perfezionamento all’estero, a Berlino.
Se Pavia fu dunque la prima delle città frequentate da Ferrini per i suoi impegni di studio e lavoro, nel corso della sua vita altre ne vedrà e abiterà. Comprese Messina e Berlino, città nella quale Contardo soggiornò dal 1880 al 1881. A Pavia tornerà poi definitivamente in veste di insegnante universitario fino alla fine dei suoi giorni. Ma Milano, dove manterrà la residenza, rimarrà sempre la città più importante, quella in cui la famiglia paterna aveva scelto di vivere da generazioni. A Milano del resto il Ferrini si troverà sempre occupato in mille faccende, tanto che gli capiterà sovente, come racconta lui stesso ad amici e parenti nelle affettuose lettere in cui si scusa per il suo silenzio, di non aver neppure il tempo di pranzare. E i suoi pareri verranno richiesti anche nelle questioni private, dove la sua indiscussa preparazione giuridica sarà invocata da molti. Godeva infatti il Ferrini la fiducia di diversi rappresentanti del clero, di cui era consigliere illuminato. Era, tra l’altro, consulente legale del vescovo Riboldi, dell’ istituto delle Suore Marcelline e di altri enti religiosi che si avvalevano della sua conoscenza di cose giuridiche. Fu anche fondatore della associazione “Religione e patria” e aderì all’Unione cattolica per gli studi sociali. E anche il consiglio comunale lo chiamò a far parte della Commissione civica degli studi( dal 1895 al 1898) per quella competenza e autorità che da tutti gli erano riconosciute. Ma, come scrisse Giovanni Cavigioli sulla rivista Verbania, nel decennale della sua morte, salvo quella “breve sosta” al Consiglio comunale della sua città natale, il Ferrini “non si mescolò mai al tramenio delle competizioni pubbliche”: scandiva le fatiche, oltre che con la preghiera, per lui un vero balsamo al quale mai avrebbe rinunciato, con l’ intermezzo giocondo dell’alpinismo. Come dire che all’aria pesante dei palazzi in cui si faceva politica preferiva l’aria pura del suo lago e delle montagne.
L’alpinismo fu infatti la grande passione terrena del Ferrini e la sua sola fonte di svago. “Quante volte dalle ardue vette dello Zeda e del pizzo Marona ho mirato con indefinito piacere lo sterminato panorama che si distendeva ai miei piedi! Con quanto diletto ho passato le lunghe ore sui ghiacciai di Macugnaga, fra gli abeti e le cascate alpine! Eppure…erano quei panorami, quegli abeti, quelle candide vette che si imporporavano al sole nascente, era il raggio mite della luna che scherzava nella tacita notte riflesso nell’increspata superficie del lago che risvegliavano in me possente il sentimento religioso, ideale, e l’odio e lo schifo a ogni bruttura. Se io fossi poeta sarebbe stato allora il momento della mia ispirazione”.
Quel sentimento della natura che tanto lo ispirava era specchio della stessa luce cui aveva improntato e dedicato la sua vita.
L’erede del Savigny
Il Ferrini fu, come abbiamo già accennato, un insigne studioso di scienze giuridiche e in particolare di diritto romano, tanto da essere nel suo tempo considerato una celebrità. Scrisse Giovanni Cavigioli nella rivista Verbania ricordando le doti dello studioso nel decennale della morte: “ Prima ancora che l’arcigna degnazione di Teodoro Mommsen proclamasse nel Ferrini l’erede spirituale del Savigny e il maestro del diritto romano nel secolo XX, i cultori dell’aristocratica disciplina se n’erano già accorti. Lo studioso che nel curriculum scientifico, compreso nel breve spazio di quarantatré anni di vita, accumulava quasi duecento pubblicazioni e pone ancora oggi a partito la pazienza dei bibliografi, meglio di ogni altro era destinato ad illustrare l’imperio eterno di Roma che sopravvive alla ruine di Genserico e degli Eruli, l’impero del diritto. Ebbe la ventura di integrare su di un palinsesto dell’Ambrosiana la collezione dei basilici, ossia il diritto giustinianeo rinnovato sotto la dinastia macedone che sedette a Bisanzio nel secolo IX. Più tardi rifornendo con alacre lena gli studi giovanili s’accinse a una ricostruzione di tutta la dottrina del diritto penale romano; ed osava, nella consapevole maturità della sua preparazione, accingersi al cimento all’indomani di un lavoro congenere del Mommsen! E potè sostenere il paragone. Perché alla comprensione penetrativa del giure romano gli giovò, oltre che la favilla divinatrice del genio, il corredo grandioso di cognizioni storiche, filologiche, letterarie, assimilate ed esposte con un garbo in cui si disegna l’impronta manzoniana”.
I due binari su cui corre la vita del Ferrini sono dunque quello della spiritualità, della fede nella dottrina cattolica, di cui è ligio e devoto, ma insieme appassionato, ardente osservante, e quello per il lavoro, lo studio in cui si distinse fin da giovanissimo, tanto da diventare insegnante a soli 26 anni e da arrivare in appena venti anni di ricerca, tanti gliene concesse la sua breve vita, alla pubblicazione di duecento lavori, tra libri e articoli su opuscoli e riviste culturali e scientifiche.
Ma non era il Ferrini uno studioso “seduto”: e per il suo lavoro si recò in diverse biblioteche d’ Europa. “ Robusto di mente, sano di corpo, nel pieno vigore dei suoi bei ventitré anni con tutto l’ardore della volontà, infaticabile nel lavoro, si gettò nel campo dei suoi studi prediletti con la foga del coscritto e la costanza del veterano. Possedeva una preparazione classica, linguistica e storica veramente straordinaria: conosceva il francese, lo spagnuolo e l’inglese: scriveva il tedesco in modo perfetto, ne conosceva anche i dialetti, e poteva interpretare libri scritti in lingua olandese e in altre lingue affini alla germanica; delle lingue morte conosceva alla perfezione il latino e il greco, leggeva l’ebraico, il siriaco, il sanscrito e il copto. A questa preparazione remota aggiungeva quella propria del romanista, che perfezionò nel biennio passato in Germania”.
Nel primo anno di permanenza in Germania completò un lavoro( pubblicato solo nel 1843) sul Diritto dei sepolcri presso i romani. L’anno seguente fu incoraggiato da Alfredo Pernice, suo maestro e tra i massimi studiosi romanisti, a intraprendere l’edizione critica e la traduzione in latino della Parafrasi greca delle Istituzioni di Giustiniano, opera attribuita a Teofilo, uno dei professori incaricato da Giustiniano di redigere il Corpus Iuris.
Proprio a Berlino il Ferrini sapeva di poter trovare il codice più autorevole dell’opera e ne ebbe quindi tutto l’agio per consultarlo. Lo stesso Zachariae di Lingental, che Ferrini riteneva il suo padre intellettuale e che lo ebbe ospite nella sua casa in Sassonia, gli mandava lettere e gli esponeva dubbi, per stuzzicare lo spirito indagatore del giovane studioso. E gli metteva anche a disposizione schede scientifiche del suo preziosissimo lavoro. “Quel dottissimo-scrisse nel 1896 il Ferrini in Rendiconti dell’Istituto Lombardo-mi confortò con assidua benevolenza né miei studi,e mi condusse e mi sorresse per non facili e mal noti sentieri”. La benevolenza verso l’allievo italiano fu tale che lui stesso, prima di morire, aveva fatto dono al Ferrini dei suoi manoscritti, raccolti in preziosi volumi. E il suo affezionato discepolo raccolse il senso di tale eredità con sentimenti di affetto e devozione: “ Ora che il compianto maestro non è più- scrisse nel necrologio dedicatogli nel bollettino dell’istituto di diritto romano nel 1895-sento tutto il dovere di non lasciar cadere per terra l’opera sua e dimettermi con impegno per corrispondere alla sua fiducia”.
Il soggiorno tedesco fu insomma determinante per il Ferrini e per la sua crescita scientifica. A guidarlo erano, oltre al Pernice e allo Zachariae, M. Voigt, H. Dernburg, T. Mommsen, che proseguivano l’opera di F.K.Savigny. L’esperienza si rivelò fondamentale anche sul piano spirituale perché il Ferrini si “inserì felicemente nelle attività di quella minoranza cattolica che operava con straordinaria vitalità nel clima del Kulturkampf, costruendo un rapporto privilegiato con il botanico M. Westermajer, terziario francescano, che lo fece iscrivere alla Conferenza di S.Vincenzo. Pare sia stato allora che il F. pronunciò voto di castità, dapprima rinnovabile di mese in mese, poi definitivo e assoluto”( G. Fagioli Vercellone, Dizionario biografico degli italiani).
Per tornare all’indagine sull’opera di Teofilo iniziata in Germania dal Ferrini, gli necessitava la consultazione di altri codici, che portarono il Ferrini dapprima a Copenaghen, nel 1881, quindi, dopo il rientro in patria, a Parigi, nel 1882, dove si trattenne per poco più di un mese. Si recò poi a Roma, dove, nei due mesi di permanenza, ebbe anche la gioia indimenticabile di assistere, con gli amici Gerolamo e Paolo Mapelli, alla messa celebrata dal pontefice, ricevendo dalle sue mani l’eucarestia. Dopo un breve rientro a Milano per ragioni familiari si rimise in viaggio alla volta di Firenze: alla Laurenzana lo aspettavano un codice di Teofilo e altri codici di diritto romano. Raccolse poi quei suoi ultimissimi studi in una memoria, presentata all’istituto lombardo di Scienze e lettere, col titolo Anacleta laurentiana et vaticana.
Si concederà finalmente, dopo tanta ricerca, la meritata pausa autunnale nella sua Suna. Lì, pur senza dimenticare Teofilo, si dedica a un tranquillo passeggio, alla gioia della serena meditazione e alle imperdibili escursioni tra le amate montagne alpine che fanno da cornice al suo lago.
Professore di umiltà
Nel 1883 i suoi già noti e indiscussi meriti scientifici lo conducono a Pavia, in veste di docente di esegesi delle fonti di diritto romano. Nel 1887 è chiamato a Messina come ordinario di pandette, rimanendovi per un triennio che, scorrendo le note della sua vita, non fu tra i più felici nella vita del Ferrini. Nel 1890 è l’università di Modena a chiamarlo, dove ottiene finalmente la cattedra di diritto romano e stringe un’amicizia, che sarà fondamentale nella storia della sua vicenda terrena, con il collega professor Olivi, perché, dopo la morte di Contardo, sarà proprio l’amico collega Olivi a ipotizzarne per primo la beatificazione.
L’assegnazione alla definitiva cattedra, che terrà fino alla morte, avviene nel 1894. E questa volta la sede è Pavia, la città nella quale aveva mosso i suoi primi passi di studente universitario. Con la sapienza delle sue conoscenze, il Ferrini, da docente, saprà trasmettere agli allievi anche l’esempio della sua pietas di uomo di fede. Quella che esercitava nella pratica quotidiana, andando a trovare i malati e i poveri. Non fu mai chiaro se la sua morte fu dovuta veramente all’acqua di un ruscello di montagna, o non piuttosto a un contatto avuto con un malato di tifo. Certo è che il Ferrini spese sempre tutto se stesso e l’impegno della sua vita, utilizzando al meglio gli alti talenti avuti, nel segno di una carità totale principalmente ispirata dall’amore. E dissimulata sotto una cappa di umiltà che impediva anche a coloro che gli stavano più vicini di conoscere fino in fondo il valore della sua opera di studioso e la virtù somma esercitata nella quotidianità. Era solito ripetere che “l’uomo più approfondisce negli studi e più sente la sua dabbenaggine”. E, da uomo di scienze, sosteneva che la via all’infinito non è la scienza, ma l’umiltà. “ Che cos’è infatti l’ umiltà se non la verità, la pura verità, la sola verità? Che altro c’insegna la natura, l’esperienza, la ragione? Come non potrà arrivare al vero, non solo speculativo ma pratico, colui che fa regola d’ogni sua azione e d’ogni suo pensiero la verità? Come non s’attirerà la compiacenza di Dio l’anima che si ripone al proprio posto, che trema al pensiero di togliere qualche cosa alla gloria del Creatore, che con una sublime abnegazione di ogni momento respira una giustizia perpetua?” Non erano solo parole, naturalmente. Chi lo aveva ben conosciuto, come il Pellegrini, così poteva ricordare il suo modo di porsi nella vita d’ ogni giorno:“ I viaggiatori del tramway Milano-Pavia lo vedevano qualche volta rincantucciato in un carrozzone, di modi semplici, dimesso; e quando si diceva loro ch’era un professore dell’università, sgranavano gli occhi. Se gli parlavate, non ne formavate un concetto migliore, il suo linguaggio era così cauto, così rigido, che nessuno avrebbe potuto farsi un’idea precisa del suo valore reale. A chi gli chiedeva consiglio mi sembra, rispondeva, crederei opportuno…pareva esitante, e che volesse egli sottomettere al vostro giudizio il consiglio suo”.
Fu la morte a rivelare la verità, nascosta, proprio come lui aveva insegnato, dietro l’umiltà.
Vennero pubblicate le sue opere di carattere religioso Gli scritti religiosi, curati dal Pellegrini, ( Milano 1926), e Pensieri e Preghiere, curati e prefati da padre Gemelli( Milano,1960), e la sua principale produzione scientifica fu riunita in 5 volumi di Opere, con prefazione di P. Bonfante( Milano 1929,1930). Soprattutto la fama della santità, accompagnata da voci di diversi e presunti miracoli, portò a uno sviluppo rapido dell’iter della causa canonica intrapresa dal Pellegrini e sostenuta dall’università cattolica di Milano, che aveva scelto in lui l’esempio della santità moderna in campo studentesco: l’ 8 febbraio 1931 fu emanato il decreto sull’eroicità della virtù e nel 1942 i resti mortali furono traslati a Milano e collocati in una cripta all’università cattolica. Il 13 aprile 1947 Pio XII lo proclamò beato.
La Città di Verbania nel 2010 ha dedicato al Beato Contardo Ferrini un premio letterario, giunto ormai alla sua terza edizione. L’intento è di ricordare i valori e l’esempio trasmesso dalla luminosa figura del Ferrini, che onorò la famiglia, lo studio e l’insegnamento, il perseguimento della verità, l’amore per la natura. E applicò con disinteresse le sue preziose doti di conoscenza e intelligenza nel cercare il bene comune. La premiazione dell’edizione 2012 del Premio Città di Verbania Beato Contardo Ferrini, presidente onorario Plinio Perilli, incentrata sul tema dell’Amicizia, avverrà presso il Teatro Hotel Il Chiostro di Verbania Intra, sabato 20 ottobre, presenti il vescovo di Novara Franco Giulio Brambilla e Francesco Alberoni, ospite d’onore. Tutte le informazioni sono reperibili nel sito del Comune di Verbania, Assessorato alla Cultura.
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