Dei due protagonisti politici della prima Repubblica che hanno avuto la statura di leader e svolto il ruolo di statisti, solo Alcide De Gasperi è ricordato per la ricostruzione morale e materiale del Paese distrutto dalla guerra e dalla dittatura. Dell’altro grande uomo politico che ha dominato la scena italiana nei decenni successivi la fase degasperiana, Aldo Moro, se ne è persa la memoria pubblica ed è stato relegato nell’inattualità.
Soltanto la Chiesa non ha dimenticato la sua personalità cristiana, la sua vita esemplare e il suo contributo alla pacificazione dell’Italia, al superamento della contestazione del ’68, alla fuoriuscita dal terrorismo, all’attuazione di una vasta gamma di fondamentali diritti e l’estensione del “Welfare State”, a cominciare dalla riforma sanitaria, a tutti i cittadini.
La diocesi di Bari, dopo aver ottenuto l’assenso del vicariato di Roma, dove lo statista svolse la maggior parte della sua attività politica e vi trovò la morte per mano delle Brigate Rosse, ha aperto la causa di beatificazione del politico pugliese.
L’analogo processo di elevazione agli altari di De Gasperi è stato bloccato del veto politico della Sudtiroler Volkspartei che non gli ha perdonato il suo impegno per l’associazione dell’Alto Adige all’Italia.
Fede e politica non sempre vanno d’accordo ma la Chiesa, onorando questi due politici prestigiosi, vuole anche ricordare che la politica, come disse Paolo VI, “è una forma esigente di carità”.
L’opinione pubblica riconosce volentieri allo statista trentino quella concretezza che ingiustamente nega al suo successore; nei tempi di grande sconvolgimento, il senso comune, cioè il conformismo, fa spesso a pugni con il buon senso.
Al ragionare di Moro è stato spesso rimproverato di essere oscuro, di velare più che svelare; è una critica che dissimula una più generale incomprensione per la politica intesa come un fare sostenuto dal pensiero e finalizzato a un progetto.
Moro aveva quella qualità, rara anche tra i più grandi intellettuali, di intuire i processi di lungo periodo, cogliendone sotto le apparenze i segni dispersi.
Il suo impegno pubblico è anni-luce lontano dalla presunta concretezza della politica attuale che si risolve nella gestione dell’esistente in un pragmatismo privo di finalismo. Moro ha testimoniato con la sua vita il cattolicesimo democratico come felice coniugazione tra laicità e solidarismo contro ogni integrismo antimoderno e ogni forma di sacralizzazione delle religioni secolari della nazione, della classe, dello Stato.
Laicizzare la politica non significa ignorare i fini; lo stile laico è quello per cui due idee diverse non generano un conflitto insanabile, due scelte differenti non provocano un guerra di religione.
I pragmatici emergenti della post-ideologia predicano la politica come concretezza ma in realtà la realizzano come affare; hanno riscoperto una cultura individualistica e disincarnata che si traduce in una logica di esercizio del potere personale per pochi professionisti.
Moro non era un dogmatico: “le fedi ideologiche dicono il loro smarrimento dopo aver lasciato sul terreno tradimenti e distruzione, sono figlie del positivismo ottimista (mentre) l’opzione pluralista deriva dal riconoscimento del valore centrale della dignità umana”, La sua politica non aveva riferimenti, come taluni ancora credono, alle ideologie storicamente definite ed organizzate, ma ad un tessuto di valori umani nei quali si potevano riconoscere ideali, culture non separate rispetto agli obiettivi civili.
Aldo Moro non fu un teorico della politica, il suo disegno si muoveva su una base di concretezza; quando venne eletto alla Costituente non aveva che ventinove anni ma la sua autorevolezza fu subito riconosciuta perché non era in rapporto con l’età anagrafica. Ebbe subito a chiarire che in una società democratica la Chiesa e i cristiani non devono agire come parte in una logica di schieramento. La Costituzione repubblicana, faticosamente negoziata tra dieci milioni di marxisti, con appendici moderate, massoniche e anticlericali, e otto milioni di democristiani fece incontrare tutti ed ebbe la caratteristica unica dell’idea personalistica che mette al centro l’uomo.
Il primato politico di Moro si svolse in una fase tra le più difficili della vicenda italiana, quella del sommovimento del ’68 con il “tumulto di rivendicazioni e di aspirazioni insoddisfatte” che scuoteva alla base la società italiana. Aldo Moro è stato l’unico politico capace di un’analisi non banale della realtà in trasformazione, dalla cui complessità e frammentazione ha avuto origine il fenomeno del terrorismo, da cui uscirà personalmente sconfitto, salvaguardando però “il filo sottile della solidarietà e degli equilibri politici sui quali si regge un’ordinata convivenza”.
I partiti, senza eccezione, avevano sottovalutato il crescere del disagio sociale; l’esplosione della società civile li travolse senza che abbiano potuto organizzare una risposta. Moro avverte la profondità e la radicalità del mutamento in atto; di fronte al processo di liberazione che coinvolge la società, l’idea dei partiti come mediatori tra cittadini e Stato entra in crisi; di qui l’esigenza di ridefinirne l’identità, le funzioni, i limiti. Questa azione di aggiornamento è stata abbandonata dopo la sua morte che segna uno spartiacque tra il prima e il poi, tra la fase della ricostruzione e il tempo della dissipazione.
Quando le Brigate rosse lo sottrassero alla sua famiglia e al Paese Aldo Moro era impegnato in un passaggio delicato ed essenziale nel tentativo di rintracciare una risposta politica al problema dell’emergenza; tentativo che è rimasto incompiuto e irrealizzato e oggi mostra il rischio di una maggiore distanza tra regole e società, tra istituzioni e cittadini, tra la politica e la vita.
Disse: “ noi siamo gente che sa che la politica conta, ma anche che la vita conta di più della politica”.
Nonostante l’assassinio dello statista, lo Stato ha retto e ha fronteggiato la sfida del terrorismo, la società si è ricomposta lontano dal terreno delle ideologie. Questa è stata la vittoria postuma di Moro perché non fu mai prigioniero di una vocazione totalizzante e la sua interpretazione politica non si conclude nel suo tempo.
La vita di Moro fu contrassegnata dalla cognizione del dolore. “Il dolore è un dato innegabile della nostra vita. Il dolore del male e della morte, del sangue sparso, dell’odio nutrito contro le naturali possibilità di intesa degli uomini, dei desideri inappagati. La lotta contro il male e contro il dolore è la lotta della libertà che riconquista se stessa. A questa lotta il cristiano non può rinunciare senza tradire il suo credo”.
Di lui ha scritto Mino Martinazzoli: “per questa capacità di realismo e di immaginazione, per questa coniugazione di duttilità e di fedeltà, Aldo Moro ha iscritto la sua esperienza politica tra i grandi della Democrazia cristiana ed è stato protagonista del processo di consolidamento e di sviluppo della democrazia italiana”.
You must be logged in to post a comment Login