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Attualità

IL CASO SALLUSTI

MANIGLIO BOTTI - 05/10/2012

Pur di evitargli il carcere – vicenda di massima ingiustizia – gli farei scudo con il mio corpo. Ho avuto l’onore di conoscere Alessandro Sallusti anni fa, quand’ero caposervizio in cronaca in Prealpina e lui al Corsera comandava da par suo le pagine milanesi, ed entrambi sfoggiavamo capigliature diverse.

Di Sallusti ho sempre ammirato non solo le capacità professionali, notevoli, ma anche la storia umana, come il fatto d’essersi arruolato volontario nei lagunari ai tempi degli esami di maturità. Non solo: per sgomberare il campo da ogni ipocrisia, mi va di dire che di Alessandro Sallusti condivido spesso gli interventi politici. Dunque, la sua chiamata in causa per un reato – la diffamazione a mezzo stampa – commesso tecnicamente (omesso controllo di un articolo in qualità di direttore di giornale), ma non nella sostanza, e la sproporzione della pena inflittagli sono così stridenti da far pensare, davvero, a una “camera di punizione” per liberarsi di lui perché giornalista scomodo.

Nella storia ci sono anche alcune ombre. Intanto: perché i giudici di secondo grado sono stati così tremendamente distanti nel giudizio da quelli di primo? Perché da una pena pecuniaria di cinquemila euro si è passati a quattordici mesi di carcere?

In effetti, a tanto mai si sarebbe dovuti arrivare. È possibile che, nel caso, ci sia stata anche una certa sottovalutazione. Di solito queste vicende vengono risolte in corsa: il giornale – se non si fa vessillifero di arroganza – scende a patti, pubblica un nuovo articolo, si corregge, sistema la cosa con una transazione anche economica e il querelante ritira la denuncia. Almeno, così accadeva dove ho lavorato tanti anni. Magari con qualche tracimazione dalla parte opposta, rispetto a quanto accaduto a Sallusti. Da noi, infatti, almeno in certe epoche, non già alla presentazione della denuncia-querela ma addirittura alla prima tonitruante telefonata del presunto diffamato, il giornalista reprobo e fallace veniva abbandonato al suo destino…

Le numerose testimonianze di solidarietà espresse nei confronti del direttore del Giornale fanno pensare che finalmente, dopo tanto tempo, il caso Sallusti, finito sotto gli occhi preoccupati anche del presidente della Repubblica, la più alta magistratura dello Stato, possa portare a una soluzione del problema della diffamazione (a mezzo stampa) e delle responsabilità.

Ma un certo “inquinamento politico”, benché non manifestato apertamente, lo si intuisce. Inutile nascondersi: v’è chi sta godendo della minaccia incombente sul giornalista schierato ed estraneo al solito coro; così come vi fu chi nell’ombra godette della cattura di Moro e, in seguito, non pianse a lungo per la sua uccisione. Per non dire poi della storia di Giovannino Guareschi che, monarchico e liberale, nella prima Italia democristiana fu costretto a prendere il suo zainetto, che già aveva usato nel campo di prigionia in Germania, durante la guerra, e a entrare in carcere, anch’egli condannato per diffamazione a mezzo stampa.

Credo che Sallusti lo sappia bene. Nel suo sguardo s’intravedono lampi di tristezza e di rassegnazione. E per una volta, mi sento di non dare proprio del tutto torto alla signora Daniela Santanché, amica di Sallusti: “Questo è un Paese che fa schifo”. Sono sempre di più, purtroppo, i segnali di decadenza.

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