Vent’anni dopo il grande cantiere della Piramide di Pei, all’interno del Louvre, è sorto il nuovo dipartimento dell’arte dell’Islam per il quale si sono dovuti realizzare nuovi ampliamenti che rappresentano una tappa importante anche nella storia dell’architettura del Museo. Il Louvre possiede una delle più belle collezioni al mondo di arte Islamica. Dotato di più di quindicimila oggetti con l’aggiunta di tremilacinquecento opere depositate al Musée des Arts Decoratives la nuova collezione del Louvre, “L’art de l’Islam”, è una delle raccolte più ricche nell’ambito temporale che va dal VII al XIX secolo.
Da questa collezione sono state scelte tremila opere più significative per mostrarle al mondo in una visione coerente e unitaria, all’interno dei nuovi spazi espositivi. L’Islam, una civiltà così viva e presente nella nostra cultura contemporanea, non poteva non avere un suo luogo di qualità all’interno di uno dei principali musei europei soprattutto nel quadro del dialogo tra due culture profondamente diverse che si stanno incontrando e che devono imparare a convivere e quindi a conoscersi. Dall’ingegno italo-francese degli architetti Mario Bellini e Rudy Ricciotti ha preso vita uno spazio dove la leggerezza e il peso si alternano in due ambienti contigui: uno al piano terreno della corte Visconti e uno ipogeo nel suo sottosuolo. Con il coraggio che contraddistingue sempre i francesi, dal Beaubourg alla Piramide del Louvre, sono stati realizzati inusuali spazi dove la presenza delle tecnologie più avanzate fa mostra di sé senza entrare in conflitto visivo con l’esposizione stessa, come accade invece per altri musei come quelli progettati da Calatrava a Valencia o da O’Ghery a Bilbao.
Si è in effetti realizzata un’opera molto coerente con l’esposizione stessa senza tuttavia rinunciare a fare tendenza. Grande è infatti il rispetto dei luoghi che si devono raccontare al suo interno. Il progetto è allo stesso tempo innovatore e rispettoso del tema Islam. Bellini e Ricciotti, insieme, hanno volato alto su un leggero “velo volante” e sono scesi all’interno della corte Visconti sospinti tuttavia ancora verso l’alto da un’aria calda virtuale che sembra formarsi nel sottosuolo. Non era facile ricavare superfici così ampie all’interno di un edificio storico dell’importanza del Louvre. Dai piani superiori del museo l’edificio non si presenta inscatolato come nelle coperture ormai obsolete dei cortili degli anni 90. Il rispetto dei luoghi ha spinto il progetto nella terra e lo ha ricoperto con un velo di rete di alluminio dorata poggiata su pilastri inclinati che contribuiscono a conferire allo spazio l’effetto di una tenda. La piazza della Corte Visconti rimane così ancora una piazza, questa volta coperta e climatizzata. Le pareti laterali, in vetro trasparente senza montanti o strutture, danno l’impressione che l’area cortiva sia solo coperta da un’enorme tenda dorata che evoca il vivere tipico del mondo islamico: i nomadi, tra le dune dei vari deserti, vivono tutt’oggi sotto amplissime tende decorate. Se lo spazio superiore, velato riconduce alla vita del deserto e del nomadismo dell’Asia e del Nord Africa, gli spazi ipogei, nel piano sotterraneo, mettono in evidenza, come in una dimensione teatrica, solo la molteplicità degli oggetti esposti come fossimo in un Gran Bazar o in un Souk.
Nello spazio ipogeo è stato ricavato un grande open-space definito da ampie superfici parietali nere, così come il pavimento acustico in grado di assorbire i rumori. Non sono state ricostruite stanze “a tema” perché il progetto architettonico ha anticipato quello museologico.
Per molti questa sarà forse un’occasione per aggiungere un nuovo capitolo al progetto del Grande Louvre ma per altri, soprattutto per gli architetti, potrà essere uno spunto e un suggerimento capace di indicare come affrontare l’annoso problema della conservazione e della tutela dei monumenti storici di fronte alla necessità della riconversione e dell’innovazione soprattutto quando ci si trova in assenza di spazi da utilizzare. E ancora una volta è lo stile italiano con la sua creatività e la sua capacità di visione a risultare vincente. Dai progetti di Bellini degli anni ‘80 e ‘90, nel design e nell’architettura, così attaccati alla terra, e caratterizzati da forme eleganti ma massicce si è passati ad un Bellini che in età matura esce dagli schemi e si proietta verso il cielo, vola appunto. E forse queste visioni nascono, come spesso accade a chi è in età matura, dal bagaglio dei ricordi più lontani, intrisi di tanta nostalgia quelli dei suoi viaggi in tenda sulla Via della Seta con la moglie e i figli. Ecco che l’esperienza, unità alla capacità di visione e ad un lavoro fatto insieme tra Mario Bellini, Rudy Ricciotti e Renaud Piérard, costruisce un’architettura molto coerente con il suo contenuto: l’Islam nella sua “grandeur”, come si può ammirare nelle mappe interattive poste alle pareti. Quando un progetto raggiunge livelli di emozione e di eccellenza nasce anche spontanea la voglia di perfezionare ciò che potrebbe sembrare già eccellente e che risulta quasi impossibile definire in una fase di progetto teorico: la luce. La leggerezza del velo che si abbassa e s’innalza si percepisce in tutta la sua trasparenza solo quando il sole fa filtrare i suoi raggi dall’alto ma quando il tempo è nuvoloso il velo dorato si appesantisce e copre il grande open space conferendo la percezione di uno spazio più basso di quello avvertibile quando la luce filtra dall’alto e colpisce il velo facendolo vibrare.
Anche nell’approccio al progetto dell’allestimento si è operato in modo inusuale: l’architetto Bellini ha deciso la forma e lo stile delle vetrine, l’esperto museologo ne ha definito, solo in un secondo tempo, l’organizzazione interna. Diversamente da come si è soliti operare il gesto architettonico ha preceduto anche il progetto museologico. Ciò ha determinato l’assenza di un percorso tematico e tutto sembra seguire invece percorsi scientifici molto colti che però risultano di difficile comprensione per chi non è già cultore della materia. Si rischia di ripetere il percorso scientifico della curatrice senza una sintesi ragionata dove i pezzi esposti non hanno una gerarchia chiara e definita. A riempire questo vuoto di racconto suppliscono peraltro dei videoterminali che mostrano video educativi ed esplicativi chiari e ben comprensibili. Ma anche in questo caso sono molto pochi rispetto a quelli effettivamente necessari e soprattutto scandiscono momenti di informazione sulla cultura artigiana del come si costruivano gli oggetti in quel tempo ma non aiutano a raccordare e a definire il tempo e il momento storico in cui gli oggetti sono stati realizzati. Lo spazio temporale analizzato raccoglie quasi un millennio e di questo lungo tempo non si percepisce un racconto unitario e neppure le fasi di trasformazione. Sembra tutto miscelato come in un gran bazar, il luogo per eccellenza del mondo islamico. A questo punto ci si può chiedere se questa fosse l’intenzione del curatore: far immergere il visitatore nel mondo islamico così come era e come è oggi dove ognuno con la propria sensibilità e cultura impara a scegliere da solo i pezzi da portare nel proprio bagaglio dei ricordi. Questa potrebbe essere una chiave di lettura sottolineata dalla presenza di esili totem esplicativi di vetro parlante, veri gioielli per chi s’intende di ausili museali. In alcuni punti delle sale sono inseriti a pavimento dei cristalli sottili che al semplice tocco della mano cominciano a raccontare e a raccontarsi storie anche in lingua araba conferendo un sottofondo musicale che accentua l’impressione che il curatore abbia desiderato riprodurre in modo elegante e intellettuale lo stile del mondo islamico dove gli oggetti vengono presentati in “abbondanza”.
Gli architetti hanno seguito un pensiero compositivo non seguendo quindi un progetto museale definito e lasciando solo tre grandi spazi in open–space dove sono messi insieme tappeti, maioliche, piastrelle, pavimenti in cui le eleganti vetrine sembrano scatole volanti con i loro mille oggetti appoggiati senza una gerarchia dichiarata e dove i pezzi più importanti non sono immediatamente riconoscibili: lo definirei un criterio dove l’intensità degli oggetti proposti ha prevalso sulla leggerezza che domina nel contenitore-vetrina e nel contenitore-edificio. Nella realizzazione delle vetrine domina una perfezione straordinaria dove la leggerezza nasce dall’alta tecnologia impiegata. Le vetrine, come scatole invisibili si aprono sul lato corto e scivolano allontanandosi come un “cassetto” senza sovrapposizione di superfici ma solo frutto di guide scorrevoli. La progettazione e la realizzazione nascono dalla creatività e dall’esperienza artigiana di tradizione familiare che è proprio una caratteristica tutta italiana della ditta Goppion, leader mondiale del settore, che ha saputo conferire leggerezza a pesantissime vetrine blindate facendole sembrare bolle di sapone. Il vetro antiriflesso non è stato utilizzato dal Louvre per ragioni economiche: avrebbe avuto un costo sei volte superiore a quello tradizionale ma se fosse stato utilizzato avrebbe veramente conferito allo spazio l’idea di un museo che non c’è, un museo che vola! Cercando attorno alle vetrine spiegazioni più articolate gli ausili si scoprono: si tratta di videoterminali, display parlanti, mappe tattili o mappe interattive che sono realizzate in materiale nero opaco poste su sfondo nero. Risultano di non immediata riconoscibilità questi elementi tutti neri o in vetro trasparente, molto eleganti, ma che si stemperano nel nero della “mise en scène”. Display tattili mostrano a campione alcuni oggetti o decori significativi da esplorare con le mani, con scritte adeguate in braille. Questi ausili tattili sono molto scuri e solo durante un secondo giro si percepisce la loro funzione. Si capisce che sono fatti per persone che non vedono per la presenza delle scritte in braille ma sono oggetti didattici utilizzabili da tutti per far comprendere meglio la lavorazione artigiana e cogliere i decori e le forme non privilegiando solo il senso della vista.
Ho avuto il privilegio di girare nel museo con due persone splendide: Edina Regoli museologa di Livorno e Peter Hohenstatt, business Development Manager di Goppion che ringrazio per aver convidiso questo inusuale nuovo viaggio nell’Islam dal VII al XIX secolo.
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