Bella sfida, occuparsi di Sallusti e del suo giudice, per me che non sono né l’uno né l’altro, anche se mi piace scriverne. Non mi ha stupito venire a sapere che sarebbe il terzo caso in un secolo di un giornalista in galera per diffamazione, credevo che quello di Giovanni Guareschi fosse stato un caso unico, motivato dall’accusa, veramente infamante, al presidente del consiglio De Gasperi, di aver sollecitato i bombardamenti alleati sulle città italiane. Mi sembra affatto normale che i giornalisti esprimano opinioni fortemente parziali, tanto che il ricevere querele per diffamazione rientra nella perfetta normalità, è una “non notizia”, esattamente come “il cane che morde l’uomo”. Al contrario, l’equivalente “dell’uomo che morde il cane” è una condanna, resa più bruciante dalla mancanza del beneficio della sospensione condizionale della pena. Non mi stupisce quindi che ora tutte le massime autorità dello Stato, politici e giornalisti di opposte tendenze cavalchino l’indignazione e invochino l’immediata modifica della legge o addirittura la grazia, come Di Pietro.
(Ma la grazia non va richiesta dal reo? E Di Pietro s’immagina che Sallusti, dopo aver rifiutato le misure alternative al carcere, s’abbassi a chiedere la grazia?)
La soluzione facile, come al solito, non c’è o va rifiutata, per ragioni superiori.
Che il giornalista “diffami”, è quasi scontato, è ovvio. A differenza del giudice, non ha nemmeno l’obbligo formale di essere imparziale, può, quasi “deve” essere parziale. Non può evitare di parlare dei fatti della vita secondo le proprie convinzioni. Anni fa chiesi ad un importante direttore di giornale come riusciva a tenere separati i fatti dalle opinioni, le sue e quelle, molto marcate del suo editore, un’importante associazione imprenditoriale. “Facilissimo – rispose – per i fatti pubblichiamo le quotazioni della borsa, il resto sono opinioni…”.
Questo primo approccio alla questione porterebbe a seguire la corrente oggi dominante e quindi a minimizzare l’entità della pena, riducendola alla dimensione pecuniaria, almeno per la responsabilità oggettiva dei direttori. Può pure darsi il caso che una pena eccessiva sia proprio ciò che rende così difficile e rara l’applicazione della legge, al contrario una pena minore, non solo pecuniaria, altrimenti diventa un mero calcolo di convenienza, può indurre il giudice a minore tolleranza, sperando che non si arrivi a sentenza solo nel caso del Presidente del Consiglio o di un altro giudice come parte lesa. Non accetterei la riduzione della diffamazione ad una “sciocchezzuola”. Ci va di mezzo la persona, la sua dignità e la verità in se stessa. Diventati, come siamo, società della comunicazione, l’immagine di ciascuno è più preziosa della proprietà stessa e altrettanto preziosa del corpo fisico.
Appena terminata questa riflessione, si svela il vero autore dell’articolo, Renato Farina, capace di procurarsi guai, continuo a pensare in buona fede, oltre ogni possibile immaginazione.
Dunque, Sallusti, e Farina, fatevi forza e coraggio, affrontate, come promesso, le conseguenze del vostro errore. Pensate entrambi che, errando gravemente nelle premesse di fatto delle vicende che avete raccontato, avete recato nocumento alla stessa nobile causa che intendevate difendere. Ma vi resta una bellissima possibilità: proprio quella di dimostrare, assoggettandovi alla punizione, la gravità del danno procurato da ogni diffamazione, non solo quelle a mezzo stampa e di sollecitare quanti esercitano la vostra nobile professione ad una giusta cautela, pensando più alla dignità delle persone in gioco che alle copie che si vendono “sbattendo il mostro in prima pagina”.
GIUDICI, LAVORO E ALTRO
Un’altra bella botta in testa all’ILVA! E tutti a discutere di come si sarebbe dovuta chiudere la stalla prima che scappassero i buoi… e non si vede come riuscire a riportarli indietro.
Ho già espresso in un pezzo precedente la mia convinzione della inevitabilità del provvedimento giudiziario, a legislazione esistente. Mi sembra però necessario notare come gran parte del resto d’Italia risulti svantaggiata dal non godere della solerzia dei giudici tarantini.
Faccio qualche esempio. Percorro per necessità lavorative l’autostrada A8 più volte la settimana. Pur non disponendo di dati oggettivi sono certo che la mia salute e quella degli abitanti delle zone da essa attraversate ne vengono fortemente danneggiate, senza contare il pericolo degli incidenti, anche mortali. Valutando bene tutte le componenti di danno certo e di rischio potenziale, ho la certezza morale che applicando i medesimi criteri di Taranto la A8 debba esser chiusa o, almeno, debba esse contingentato il traffico ad un livello almeno venti volte inferiore. Per quanto mi riguarda, poco male: salirò sul treno delle Nord prima di Varese, troverò ancora posto a sedere in prima classe. Farò un poco di fatica per qualche settimana, forse per qualche mese, poi la diminuzione dei passeggeri, conseguente alla chiusura delle fabbriche e degli uffici, mi consentirà di viaggiare meglio di prima. Peccato che dopo un po’ ridurranno anche le corse ferroviarie per mancanza di traffico.
A Milano si vivrà sicuramente meglio, grazie alla totale eliminazione del traffico automobilistico, altro che area C! Giacché saremo all’opera, qualcuno certamente metterà mano anche al trasporto pubblico, fermerà gli autobus non elettrici, ridurrà dell’80% la velocità dei treni del metrò per ridurre il fastidio del frastuono assordante (questo davvero insopportabile).
Dopo pochi mesi potremo iniziare il processo di decementificazione dell’intera Lombardia, per poi indire un referendum popolare, sicuramente vincente, per mutarne il nome in Arcadia. Ho calcolato che solo la vegetazione spontanea rinascente tra le rovine di Milano, Monza e Sesto San Giovanni potrebbe alimentare qualche centinaio di migliaia di pecore, capre, galline e conigli allo stato brado, sufficienti a nutrire la popolazione esistente. Ovviamente sarebbero banditi bovini e suini in quanto troppo ingombranti ed inquinanti, in quanto produttori di gas serra.
Infine, ma forse dovrebbe essere la premessa e non la conclusione, si potrebbero abolire le istituzioni politiche ed amministrative, in quanto evidente fonte di corruzione. Inoltre sarebbero comunque inutili, non essendoci nulla da amministrare.
Non dubito che l’esempio lombardo, pardon: arcadico, sarebbe seguito dal resto d’Italia, per la prima volta, in breve tempo: il resto del Paese si adeguerebbe anche più facilmente di noi ai nuovi ritmi di lavoro e di vita.
Allora anche il nome Italia ci sembrerà vetusto e, anche senza referendum, tutti d’accordo sceglieremo un nuovo nome: Giustizia.
You must be logged in to post a comment Login