Ha raccontato l’inferno dopo averlo attraversato in lungo e in largo, Aldo Carpi, grande pittore milanese, arrestato dai fascisti il 23 gennaio 1944, a Mondonico un paesino della Brianza dove era sfollato con la moglie Maria e i sei figli, Fiorenzo, Pinin, Giovanna, Cioni, Paolo e Piero.
L’ha vissuto tutto, ha visto i segni della morte e del dolore estremo, ha conosciuto la barbarie, la vigliaccheria, il sadismo. Tutto quello che c’era da vedere ma da quell’inferno alfine è uscito, più morto che vivo, pronto però a raffigurarne i tratti e le tragedie, a tramandare la memoria.
Insegnante all’Accademia di Brera, al momento dell’arresto, su delazione di un collega, aveva cinquantasette anni. Avvisato dell’arrivo dei fascisti della Legione Autonoma “Ettore Muti”, una masnada di criminali, guidati dal sedicente colonnello Francesco Colombo, fucilato all’insurrezione, avrebbe potuto salvarsi con facilità ma anziché fuggire prese la strada di casa, nella speranza, consegnandosi alla cattura, di salvare i figli, che pensava fossero nell’abitazione. Solo due erano a casa, Giovanna e Piero, ragazzini, tutti gli altri in montagna impegnati nella Resistenza. Erano stati avvertiti a loro volta da alcuni contadini del pericolo imminente ed erano fuggiti, mettendosi in salvo per tempo.
Aldo Carpi, percosso e sbeffeggiato dagli sgherri neri, fu trasferito al carcere di San Vittore e poi deportato nel campo di sterminio di Mauthausen e infine a Gusen, una sorta di sottosezione, dove scrisse sui foglietti, con una grafia minuta, uno sconvolgente diario. Un pezzo di grande Storia.
In casa quando arrivarono i fascisti c’erano due partigiani di Lodi, uno dei quali, Egidio Lovati fu arrestato mentre il secondo, Gino Molina fu rilasciato ma quattro mesi dopo, braccato dalle Brigate Nere, fu ucciso con una raffica di mitra in via Solferino a Milano.
Dei sei figli, Paolo fu catturato nel luglio del ’44, portato prima a Flossenburg e poi a Gross-Rosen dove fu assassinato dai killers di Mengele con una iniezione letale a diciassette anni.
Aldo Carpi messo in un primo tempo a lavorare nelle cave, a caricare blocchi di pietra sopra un treno, sarebbe certamente morto se a salvarlo non fosse stato il suo talento di pittore, scoperto da uno dei tanti aguzzini che gli aveva chiesto di fargli un ritratto da inviare alla sua famiglia. Ne seguirono molti altri da trasmettere ai figli, alle mogli, ai padri, ai nonni, alle fidanzate degli ufficiali, prendendo sempre a modello una fotografia. I ritratti erano piaciuti moltissimo e anche i quadretti con vari soggetti, preferibilmente i paesaggi.
Grazie a questa attività, certamente artistica sotto la sferza dell’oppressore, Carpi poté lavorare sempre al coperto, relativamente al caldo, ottenendo quale compenso una zuppa supplementare che, quando poteva, distribuiva anche agli altri deportati.
Scrisse anche un diario (pubblicato da Einaudi anni fa, anche nella collana dei tascabili), una sfida ai carnefici e, assieme, un atto di enorme coraggio perché se fosse stato scoperto mentre scriveva su brandelli di fogli trovati casualmente, sarebbe stato certamente soppresso. Nei campi di sterminio si era uccisi fra l’altro per molto meno. Come annotò Primo Levi quasi sempre era il caso a far decidere e per chi entrava in quell’inferno la sentenza era già stata scritta.
Per uno come Carpi giocò contro, ad un certo punto, anche la rivalità e la gelosia di altri. Scrive Corrado Stajano nella splendida prefazione al Diario di Gusen che “quando arrivò al suo primo lager, Carpi fu accolto dall’ostilità di altri pittori deportati che temevano la sua concorrenza, lo maltrattarono, gli rubarono i colori che era riuscito faticosamente a portare con sé”.
A Gusen la fortuna in un certo senso comunque gli arrise. Incontrò infatti un medico polacco, Felix Kaminski che aveva una immensa passione per l’arte e un altro medico di Poznan, Toni Goscinski, che lo posero sotto la loro protezione, permettendogli di rimanere in uno sgabuzzino dell’ospedale dove Aldo Carpi, che era riuscito a preparare dei colori, lavorò in maniera sistematica tante erano le richieste che gli arrivavano.
In un anno di lager dipinse, a tempera e ad olio, settantaquattro quadri fra cui “fiori, donne e rose, il capitano medico e suo figlio, la donna velata, la donna del sergente, l’ex ergastolano, la bionda del lago di Como, il figlio del dottor Kaminski, il Monte Rosa, madre e bimbo in montagna, ragazza morta durante un bombardamento, nudino veneziano”, ma solo dopo il ritorno, Carpi poté dipingere le scene strazianti del campo della morte, indimenticabili nel loro orrore.
Racconta il figlio Pinin che ha mirabilmente curato le memorie del padre, interrogandolo per giorni e giorni, per colmare gli stacchi fra un foglietto e un altro e per chiedergli chiarimenti su personaggi e vicende solo accennate nel lacerante diario. I colloqui furono molto difficili perché Carpi, tornato a casa, parlò senza interrompersi per due giorni di seguito, poi tacque. Ci volle tutta la pazienza del figliolo per ricucire il filo infranto della sofferente memoria. Il padre parlò ma non volle più maneggiare quei foglietti, neppure uno, “perché non si è mai sentito in grado di farlo”.
Ancora negli ultimi anni faceva fatica a parlare del lager. Non ce la faceva a dimenticare i compagni che, giorno dopo giorno, aveva visto coi propri occhi entrare nel Bahnhof del Blocco 3, la “camera della morte”. Come avrebbe potuto dimenticare l’operaio Alfredo Borghi che, nell’anticamera della morte, gli aveva sussurrato con la voce impastata dall’arsura e dal terrore: “Carpi, damm de bev”? O quel ragazzino russo “bolscevico di dodici anni”, il piccolo Zucarov, che carezzava come fosse stato suo figlio, tenendoselo stretto come in un estremo saluto, con la consapevolezza che non avrebbe potuto salvarlo dalla morte?
L’incubo era finito. Erano arrivati gli americani, i liberatori e il vecchio Carpi, devastato e tremante, sia pure con un ritardo di tre mesi, era rientrato a Milano in mezzo ai suoi cari, assente il solo Paolo, il figliolo giovanissimo, ammazzato dai nazisti.
Carpi riprese i pennelli. Segnò l’epoca della rinascita. A furor di critici, pittori, modelle, allievi e bidelli venne nominato direttore dell’Accademia di Brera, il tempio della grande Milano. Moltissimi dei suoi sostenitori sarebbero diventati famosi, i pittori Cassinari, Morlotti, Dova, Ajmone, Crippa, Treccani, Del Bon, Funi, Soldati, Cavaliere e i critici Mario De Micheli e Raffaele De Grada.
Visse ancora per ventotto anni. Morì nella sua Milano il 27 marzo 1973. La sua figura e la sua testimonianza, terribile e ammonitrice, sono vive nella città per bene, non in quella sconciata dai maiali degli ultimi anni.
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