All’inizio è una lieve brezza, un tenue sentore di muffa e palude, poi le acque si increspano, diventano più torbide e il loro livello si alza, inesorabile, il fragore aumenta, le sponde sono invase, cose e persone travolte, infine tutto passa lasciando un colore grigio brunastro uniforme a tingere tutti i colori della città; l’onda di piena non perde forza che nel mare, dove si getta e si mischia alle acque di quelle che l’hanno preceduta, disponendosi ad accogliere le prossime, inevitabili, future. Così è un po’ la mia percezione delle notizie clamorose, delle storie che montano e affollano giornali e blog; nessuno ci ha mai consigliato di cavalcare un’onda di piena con il surf, il dominio di tale potenza è impossibile, ci travolgerebbe in pochi istanti e i nostri corpi contribuirebbero solamente ad accrescere il fragore dell’onda d’urto.
È vero però che troppo spesso stiamo sugli argini a guardare, sordi agli avvertimenti, nell’illusione di poter dire “Io c’ero, ho visto, so come è andata!” ma poi finiamo ugualmente preda della corrente e l’acqua ci riempie la bocca soffocando sul nascere ogni nostro tentativo di dare una lettura dei fatti. E’meglio allora scandagliare la marea di fango che l’onda ha lasciato alla ricerca dei superstiti o di qualche piccolo tesoro da ripulire e far luccicare di nuovo alla luce della lampada sul nostro comodino o a quella del sole quando la tempesta sarà passata. Con questo intento segnalo allora, in piena ondata Polverini, un bell’articolo di Stefania Ulivi pubblicato sul sito del Corriere della Sera il 18 settembre, dal titolo “Basta. Il tumore non è una metafora. I politici se ne trovino un’altra” (1), in cui è messo in rilievo come molte parole, in seguito ad un reiterato fenomeno di sovraesposizione, abbiano perso la loro forza simbolica, mantenendo tuttavia inalterato il loro significato nell’esperienza biografica del singolo, obbligato quindi a confrontarsi con la propria isolata esperienza in modo inaspettato e fuori luogo, allontanandolo, come conseguenza paradossale, dal valore che invece il parlante avrebbe voluto attribuire a quelle secondo la logica del proprio pensiero e del proprio contesto. La retorica del luogo comune non porta senso, chiude gli individui nelle celle del proprio orticello autoreferenziale; e non fa crescere nessuno.
Proviamo allora ad usarle un po’ meno queste parole, non stanchiamole troppo e se posso richiamare una breve frase del Vangelo (e perdonatemi se l’uso che ne faccio in questo contesto apparirà riduttivo rispetto all’enorme portata del suo insegnamento) “Il vostro dire sia: si si; no, no. Il di più viene dal maligno” (Mt 5,37).
Nel nostro piccolo possiamo poi provare ad usare parole nuove (non sarebbe male ogni tanto arricchire il nostro vocabolario) o a inserire le solite parole in situazioni che le facciano splendere come nuove, non più omologate dall’uso altrui, ma, per esempio, recuperando un certo gusto per il gioco, il calembour, provare ancora a far erompere da queste tutto il potenziale espressivo, inatteso, ma ormai castigato dalla consuetudine, che portano con la loro vita, a volte millenaria a volte recente, ma sempre ugualmente efficace a raccontare le nostre sfaccettate esperienze.
1) http://27esimaora.corriere.it/2012/09/18/?post_type=articolo
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