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Attualità

IL CASTELLO DI BELFORTE? SALVIAMONE IL RUDERE

SERGIO REDAELLI - 28/09/2012

Come salvare il castello di Belforte? Non serve spendere un sacco di milioni per trasformarlo in un museo, è sufficiente consolidarlo così com’è, allo stato di rudere e aprirlo al pubblico assicurandosi solo che sia garantita la sicurezza dei visitatori: come già avviene per i monumenti archeologici di Castelseprio e della torre di Velate. Lo suggerisce Marco Tamborini, delegato varesino e membro del consiglio direttivo lombardo dell’Istituto Italiano dei Castelli (www.castit.it), di cui è anche consigliere scientifico nazionale. Un esperto nella doppia veste di tecnico e studioso: Tamborini, sessantatre anni, di Travedona, è laureato in scienze politiche con una tesi in storia medievale e dirige la Rivista della Società Storica Varesina. È autore di libri fondamentali in materia (“Castelli e fortificazioni del territorio varesino”, 1981, Ask Edizioni), di articoli di approfondimento per riviste specializzate (il castello rurale di Barasso, le fortificazioni del lago di Comabbio, di Angera ecc.), relatore di convegni (le Torri del XII e XIII secolo in provincia di Varese, Ispra, 1998) e cicerone in un fitto programma di visite guidate.

Per Tamborini è un errore pensare di salvare il castello di Belforte con un faraonico intervento di restauro, il rudere può essere recuperato alla collettività come parco archeologico, una degnissima soluzione. “Si tratta di togliere le casupole senza interesse artistico che gli stanno intorno – spiega – e di far “emergere” le parti storiche sotto il controllo della Sovrintendenza. Ma pensare di recuperare le solette, il tetto, i piani, i muri, gli infissi, di costruire l’impianto di riscaldamento, gli ascensori, gli accessi per gli handicappati diventa una spesa enorme. Altro è salvaguardare l’involucro dall’esterno con alcune soluzioni che un buon restauratore può facilmente suggerire. Si affida il progetto a un tecnico esperto sotto la consulenza e il controllo della Sovrintendenza per definire i costi e si dividono i lavori in diverse tranches. Alla fine ci sarà la possibilità di visitarlo, con rappresentazioni musicali e teatrali d’estate, di farne insomma un luogo vivo, sicuro e utilizzabile”.

Del castello di Belforte, negli ultimi dieci anni, hanno parlato un po’ tutti, politici locali, amministratori pubblici e associazioni, a cominciare dagli Amici della Terra. Si è gridato all’allarme, si è denunciato il pericolo di crolli ma il problema è ancora irrisolto. L’edificio è parzialmente di proprietà comunale e ci sarebbe una responsabilità morale di Palazzo Estense a cercare una sistemazione, ma non è ancora stata trovata. Tra le ipotesi più accreditate il restauro per rimettere il castello a casa di abitazione o a museo, una soluzione costosissima. Intanto il tempo passa e Belforte è diventato l’emblema dei problemi “eternamente urgenti” della città.

“Eppure la soluzione è a portata di mano a costi accessibili – insiste il delegato dell’Istituto dei Castelli – la prima cosa da fare è consolidare le strutture in modo che il tetto e i muri non crollino magari per una nevicata. Una semplice analisi stratigrafica delle varie parti dell’edificio può accertare le epoche di costruzione, dalle più antiche che risalgono al medioevo alle aggiunte quattrocentesche e a quelle secentesche di Palazzo Biumi che è la parte più solida. Basterà poi creare uno spazio espositivo permanente a pannelli, a pianterreno, così che la gente possa conoscerne le vicende con un percorso guidato. Non tutti i castelli si mantengono nelle condizioni originarie – aggiunge lo storico – Castelseprio per esempio è un rudere, ma è visitatissimo e fa parte del patrimonio dell’umanità tutelato dall’Unesco, come la Torre di Velate salvata dal Fai”.

“Significativo è proprio il caso della Torre di Velate che era proprietà privata. La famiglia Zambeletti la donò al Fondo Italiano per l’Ambiente che svolse l’intervento conservativo con il contributo di Esselunga e oggi la torre non corre più il rischio di crollare. È un bene pubblico visitabile, eppure è solo un moncone. Anche a Castelseprio una volta c’erano solo i ruderi nel bosco, la Sovrintendenza e lo Stato acquisirono i terreni in quanto bene archeologico e dal dopoguerra scavarono e pulirono fino a rendere visitabile quello che c’era. Oggi Castelseprio è diventato il punto di riferimento degli studi della cultura longobarda e altomedievale nell’Italia settentrionale. Anche all’estero, numerosi monumenti sono stati salvati come parco archeologo nella Svizzera meridionale, a Mesocco e Giornico nelle valli sopra Bellinzona, in Francia, in Inghilterra e in tutta l’Europa”.

“Il patrimonio culturale va salvaguardato e valorizzato – conclude Tamborini – il Comune e tutta la comunità in generale devono avere l’orgoglio e la consapevolezza di conservare il nostro passato. Nel 1981 pubblicai “Castelli e fortificazione del territorio varesino” e prima di allora non si sapeva quali, quanti e dove fossero i castelli varesini. Dopo l’uscita del libro, invece, c’è stata maggiore attenzione al patrimonio castellano provinciale. Il maniero di Fagnano Olona era già sede del Comune, fu restaurato e si trovarono gli affreschi grazie alla sensibilità delle diverse amministrazioni che si sono succedute nel tempo. Quando scrissi il libro, il castello di Masnago era proprietà Panza, poi passò al Comune di Varese che lo restaurò, fu scoperto il torrione centrale in pietra a vista, furono restaurati gli affreschi e oggi è sede dei musei d’arte. Non è stato facile, ma alcuni castelli hanno avuto un’evoluzione importante. Anche per quello di Belforte ci può essere un futuro migliore”.

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