Volano alle stelle i prezzi dei prodotti di prima necessità, la gente comune stenta a far quadrare i conti, i risparmi si volatilizzano, la produzione crolla, i disoccupati crescono in percentuale drammatica, i suicidi per disperazione conoscono un’impennata sconosciuta. Vivere è dura, durissima, e lo sarà sempre di più, a parte gli evasori – i veri criminali – e i ladri di mestiere di stanza anche a Varese dove più del 50% dei commercianti, quelli che in genere piangono lacrime amare per gli scarsi guadagni, controllato di recente dalla Guardia di Finanza, non rilascia le ricevute fiscali.
Lo scenario che abbiamo sotto agli occhi, fatte le debite proporzioni (non si spara), ci riporta al tempo della guerra. Qui la miccia non è stata accesa dalle armi ma dai banchieri Usa, i signori del presunto capitalismo avanzato, con le “bolle” scoppiate dopo aver generato carta straccia anziché moneta sonante, frutto dell’impresa e del rischio. E proprio ai banchieri killers è stato affidato il ruolo di magici guaritori. Assai improbabile. Sfruttare l’uomo resta la regola.
Di queste cose me ne ha parlato, usando foschi termini, ma in fondo realistici, un vecchio contadino di Casbeno che quegli anni li ha conosciuti bene, facendolo a modo suo, con buon senso. Un contadino delle belle terre che un tempo salivano dalla pineta dei Campigli verso la cima del Colle ora ricoperte da colate di cemento dei palazzinari bosini al punto che il paesaggio è completamente scomparso. Campi interi, coltivati con le verdure degli orti digradanti verso le Schiranne, descritte sui suoi celebri libri dal Nangeroni quale esempio classico di agricoltura lombarda.
Facciamo il salto all’indietro. Le bombe cadevano – era l’estate del ’43 – gli Alleati accentuavano i loro sforzi per chiudere la partita accesa dagli sciagurati dittatori. A pagare il prezzo dei disastri una popolazione inerme. Un po’ come accade oggi dopo decenni di gestione allegra della cosa pubblica e di mirabolanti promesse (l’ultimo disastroso ventennio) in una corsa vertiginosa verso il baratro, rallegrata dai “camerieri” del padrone, alla bisogna impresentabili buzzurri in costumi romani o a bordo di uno yacht pagato dagli amici, che pescano milioni dal denaro pubblico, appunto il nostro.
Il salto all’indietro con gli sprazzi di memoria che ancora ci soccorrono offre l’immagine cruda della realtà. Forse è interessante conoscerla o, per chi l’avesse vissuta, meglio riconoscerla. Una ripassatina non fa mai male.
Varese, per ora (ripeto, era l’estate del ’43 e il peggio doveva ancora venire) evitata dai bombardieri alleati, viveva con grande angoscia. Milano, una manciata di chilometri più in là, era in fiamme. Crollate la Scala, Palazzo Marino e la Pinacoteca di Brera dove la direttrice Schellenbrid, suocera dell’avvocato Aldo Lozito, aveva messo in salvo in extremis sui camion il tesoro cartaceo strappandolo al rogo. Fiumi di sfollati avevano preso d’assalto Varese, “la città dei giardini” (per chiamarla alla Daniele Zanzi), incrementando paurosamente la popolazione e mandando in tilt l’Ufficio Approvvigionamenti e la Sepral. Gli alberghi (Europa, Ticino, Magenta e le decine di trattorie) erano diventati mense pubbliche con lunghe code alle porte. Si mangiava col tagliando alla mano che passava il Comune.
Varese tanto per confermare che in fondo ha un “cuore” aveva aperto una sottoscrizione “pro-sinistrati” con buon successo, raccogliendo un milione di lire. Il “Credito Varesino” aveva donato 100 mila lire, 50 mila lire gli industriali Achille Cattaneo e Caproni di Venegono; 25 mila lire l’imprenditore della teleria Giordano Leva, 5 mila lire il Presidio Militare e 500 lire addirittura il Comando della VIII Legione della Milizia che, malgrado la caduta del regime, esisteva ancora da qualche parte!
Il commercio aveva subito un vero tracollo. Solo qualche negoziante si era salvato. “Bettinelli”, la nota ditta per carrozzine per bambini, con negozio in casa Romanò (quella abbattuta non dai bombardamenti ma dalla sciagurata giunta DC negli anni ’50 per farci l’orrendo palazzo della Standa!), aveva proseguito a pubblicizzare sul giornale il suo prodotto. Le vetrine di Valenzasca, l’eden gastronomico, con paté e aragosta, erano una sfida per chi aveva problemi a mettere assieme il pasto quotidiano. La Cartoleria Pizzo di piazza Carducci stentava a far funzionare la sua rinomata scuola di dattilografia ma non aveva rinunciato a pubblicare gli slogan murari. La piccola pubblicità di “Cronaca Prealpina”, diretta dal 22 agosto da Carlo Lari (che l’8 settembre sarebbe riparato in Svizzera), aveva continuato a ospitare i piccoli annunci di chi cercava “una motocicletta 300-500, gommata, ottimo stato”, di chi vendeva “api regina selezionate”, di chi come un anonimo ragioniere cercava l’anima gemella “simpatica, colta, 22-28 anni, condizioni sociali adeguate”, di chi cercava lavoro di qualsiasi tipo, offrendo la sua forza di “48enne, robusto, libero” e di chi, infine, alla canna del gas metteva sul mercato, “20 conigli, gabbia compresa”.
Il clima era di quelli brutti e non bastavano a far tirar su il morale la radio con l’orchestra Cetra e le serenate di Giacomo Rondinella e di Giorgio Consolini. Ci voleva altro. I cinema, ad esempio, per chi aveva i soldi per andarci, con un biglietto che costava da 1 a 3 lire. Al “Vittoria” (ora chiuso) spopolava in quei giorni “Malombra” con Isa Miranda e Andrea Cecchi, “Lascia cantare il cuore” con Rabagliati e la Vivi Gioi o ancora “Amante segreta” con la tenebrosa e giovanissima Alida Valli e Fosco Giachetti. In piazza del Mercato (sciaguratamente demolita pochi anni fa, compreso il Liberty del Mercato Coperto, per farci l’obbrobrio delle attuali anonime Le Corti) funzionava a singhiozzo il “parco dei divertimenti” con la più grande “autobolide veloce”, la giostra e le gabbie volanti.
Il coprifuoco definiva il tempo della quotidianità, dalle 23,30 alle 4,30. Gli spettacoli pubblici dovevano terminare alle 22,30.
La morsa economica la si avvertiva dall’aumentare dei prezzi delle merci. Negozianti e commercianti pescavano famelici dai loro magazzini i tesori che mettevano in vetrina con quotazioni stratosferiche, facendo lauti guadagni.
I prezzi dei generi di prima necessità non erano sfuggiti alle regole della tragica ora: un chilo di insalata costava 3 lire e 20 centesimi quando nel ’41 si comperava ad 1 lira e 80 e l’anno successivo a 2 lire e 70; un chilo di patate costava fra le 2,15 e le 2,40 secondo la qualità mentre negli anni precedenti la quotazione era stata di 1 lira e 5 e di 1 ,35; le mele erano in vendita a 4,80, 2 lire in più rispetto al ’41, e 1 in più rispetto al ’42; un litro di latte costava 2,85 contro le 2,50 nel ’41 e 2,80 nel ’42. Un uovo era pagato 2 lire, il doppio esatto di due anni prima.. Anche il prezzo della legna, un bene assai ricercato scarseggiando il metano e il carbone, era volato alle stelle: nel ’41 era di 31 lire il quintale, nel ’42 di 40, ora fra le 43 e le 45.
Il razionamento aveva colpito ogni prodotto. La Sezione Provinciale dell’Alimentazione il 17 agosto del ’43 aveva informato la cittadinanza che era in corso la distribuzione di 90 grammi di olio per persona, di 250 grammi di zucchero, di 75 grammi di burro, di un etto di concentrato di pomodoro, di 15 chili di legna da ardere, di 100 grammi di sapone per bucato, di 50 grammi di formaggio “tipo grana”. Chi possedeva un automobile doveva mostrare i buoni di prelevamento per poter comperare il carburante e per la fornitura contavano la cilindrata del motore e le reali esigenze del proprietario.
Frattanto aveva assunto sempre maggior peso il “mercato nero”, un fenomeno che, lentamente, si era presentato sempre “più indispensabile” incrinando fortemente il senso della lealtà alla legge, laddove questa si scontrava con le severe prove della sussistenza (magari con recite di grande culto della legalità, come ai nostri giorni, quando tale sussistenza non era in gioco)
Rilevazioni medie su un più ampio territorio rendevano meglio l’idea di come andassero le cose: una dozzina di uova al mercato libero (quando si trovavano) costava 10 lire contro le 90 al “mercato nero”. Un litro d’olio 15 lire contro 120; un chilo di burro 28 lire contro 150-200; un chilo di salame 25 contro 170; un chilo di pane 2 lire e 60 contro 23.
Si tirava maledettamente la cinghia ma i “furbi” galleggiavano. Era ed è la solita storia. Qualche volta la legge arrivava a bastonare i fuori-legge. Sempre poveracci (come oggi) mentre i ladroni al posto di dimettersi al volo e poi finire in galera (vedi gli USA) prendono la strada di “Piazza Pulita” o di “Porta a Porta” mostrando al mondo intero quale sia il vero volto del nostro “spread”. Tale Angela Baranca di Saltrio, informava “Cronaca Prealpina”, si era beccata 6 mesi di reclusione, 2 mila lire di multa e 200 lire d’ammenda per aver macellato clandestinamente un vitello. Martino Albertella di Luino, accusato di aver rubato un tacchino, era stato condannato a 2 mesi di carcere e 240 lire di multa. Gli altri processi avevano riguardato sempre esigenze di guerra: furti di biciclette, di patate, di prosciutti, di pane. Ognuno cercava di sopravvivere alla meglio.
Oggi non è molto diverso. L’evasione fiscale viaggia nel Paese sui 120 miliardi di euro. La corruzione tocca i 60 miliardi, impedendo alle finanze straniere di affacciarsi sul Bel Paese. Nel Lazio e Lombardia gli scandali vivono momenti di gloria. Non è la guerra ma per una larga fetta della nostra collettività ci assomiglia molto.
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