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Libri

SCHERZI A CANESTRO

FLAVIO VANETTI - 11/11/2011

Lunedì 14 novembre alle 18.30 al Salone Estense viene presentato il libro di Dino Meneghin “Passi da gigante. La mia vita vista dall’alto” scritto assieme al giornalista varesino Flavio Vanetti. Ecco uno stralcio del capitolo settimo, gentilmente concesso dall’editore Rizzoli.

“Fare il presidente della Federbasket, oltre alle grane che la carica di per sé comporta, significa imbattersi in un equivoco di fondo: molti immaginano che io sia finito in una sorta di agenzia viaggi, vacanze e cazzeggi. «Adesso ti diverti a girare per il mondo…» mi sento ripetere. Come se fosse una novità, e il mondo non lo girassi dall’età di quindici anni! I viaggi sono stati il contorno, in linea di massima piacevole e arricchente, della mia esperienza di atleta. E la prima trasferta – meta Sassari – è ancora nei miei occhi, nitida ed emozionante.

Era il 1965 e giocavo in serie B con la Robur et Fides. Partimmo da Linate con un quadrimotore a elica: si era al tramonto, c’era uno scenario da cartolina con quel rosa che cullava le Alpi sullo sfondo. Bellissimo, indimenticabile. Da quel punto zero si aprì una sequenza infinita di aerei, pullman, treni…”. “I viaggi, a ogni modo, sono molto più importanti di quanto si pensi. Sono un termometro infallibile delle qualità umane della squadra, decisive per garantire anche una solida base tecnica: trascorri con i compagni ore e ore in pullman, e se non si è più che affiatati le cose si complicano… Vi assicuro che l’intesa non è mai scontata: in un gruppo possono addirittura saltar fuori i coltelli, per non parlare delle ripicche e dei silenzi. La mia fortuna, invece, è di aver avuto colleghi che prima di ogni altra cosa erano amici.

L’atmosfera che si respirava nella Ignis degli anni Settanta era impareggiabile. Vivevamo un inebriante doppio profilo: da un lato, seri e professionali negli allenamenti e spietati in partita; dall’altro, mattacchioni e teste di rapa nei momenti in cui si poteva staccare la spina. In un’era nella quale non esistevano telefoni cellulari, iPod, iPad, iPhone e compagnia, il pullman si trasformava nel palcoscenico di un cabaret: imitazioni, cori goliardici, battute. Accadeva di tutto e di più. Si andava per osterie – si doveva pur mangiare, no? -, ci si tuffava in eterne partite a carte (io però le odiavo e mi astenevo), si suonava la chitarra. E qua e là si leggeva. Oddio, io la prendevo un po’ soft: fumetti, più che altro.

Un giorno Paolo Vittori, uno dei grandi veterani della squadra, mi sorprese inebetito davanti a un numero di “Tex” e mi rimbrottò: «Ormai hai ventun anni, devi aggiungere altre letture al tuo repertorio: quotidiani e libri; non puoi fermarti solo ai fumetti e allo sport». Fu la prima, significativa lezione di vita imparata da un compagno. Ma dal momento che le trasferte erano interminabili (quando si andava a Gorizia, ci si augurava solo una cosa: che il campionato si riducesse al più presto alla sola Lombardia…), si sbracava velocemente. Tempo un’ora e cominciavano gli scherzi. Qualche volta, addirittura, grazie… a un assist: c’era chi diventava vittima senza saperlo e senza, soprattutto, che noi avessimo pianificato di colpirlo. Così, ad esempio, rientrando una volta da Zara, dove avevamo giocato contro lo Zadar nella Coppa dei Campioni, sistemammo per le feste Tino, il nostro autista. Aveva comperato da poco una cinepresa e desiderava collaudarla a dovere filmando un bel paesaggio: la costa adriatica dell’allora Jugoslavia era perfetta. Ma lui doveva guidare… Ci chiese pertanto il favore di sostituirlo nelle riprese, sottolineando che avrebbe proiettato il filmino al termine di una cena con familiari e amici. Aldo Ossola, sghignazzando sotto i baffi, accettò di coordinare la regia. I primi due minuti furono perfetti. Quelli successivi, un po’ di meno…: la macchina da presa era passata di mano in mano ed era successo quello che potete facilmente immaginare. Quando andò a ritirare le bobine sviluppate al Photo center, Tino fu squadrato in malomodo dai commessi del negozio. E quella sera a casa, sullo schermo, all’improvviso comparvero…”. “Spesso l’autobus della squadra rischiava la sassaiola dei tifosi avversari. Il posto peggiore, sotto questo profilo, era Pesaro: c’era sempre qualcuno che voleva fare danni. Una volta l’autista ebbe un presentimento: «Vediamo se è tutto a posto» disse andando a controllare. Scovò tre tipi che stavano armeggiando vicino a una ruota. Fu bravissimo a fare finta di nulla. Si avvicinò con aplomb complice e domandò: «Che cosa state facendo, ragazzi?». E loro: «Ssst, vieni qui anche tu che buchiamo la gomma». Patapìm, patapùm, patapàm: li gonfiò come tamburi e li prese a calci nel sedere.

Durante le trasferte sul pullman varesino c’è stata poi, per un bel po’ di tempo, la battaglia dei jeans. Avevamo scoperto una ditta di Busto Arsizio che li produceva, li vendeva a buon prezzo e, soprattutto, li realizzava su misura. Tutti si rifornivano lì e una sosta per lo shopping era diventata un’abitudine. Peccato che con altrettanta puntualità e frequenza fosse scattata anche la prassi di strapparci i pantaloni l’un con l’altro. Era stato Marino Zanatta a cominciare. I jeans avevano le tasche tipo Levi’s, cucite in maniera molto resistente. Ma una volta che ne partiva una, il destino del pantalone era segnato: si strappava da sotto il resto e il malcapitato rimaneva in mutande. Una volta mi ruppi così tanto le scatole che cominciai a lanciare i brandelli di jeans dal finestrino: arrivai alla partita indossando le braghe della tuta. Quando scattava il segnale dell’ora dello strappo, era guerra allo stato puro su più fronti. Nessuno l’ha mai scampata. La sola eccezione fu Maurizio Gualco, figlio di Giancarlo, il general manager: diventò titolare nella stagione 1978-79 e noi ci leccavamo i baffi all’idea del trattamento da matricola che avremmo potuto infliggergli, compreso appunto il “serviziojeans”. Vinse lui, però, almeno su questo fronte: usava il modello originale americano, praticamente indistruttibile. Una volta lo perseguitammo per un’ora e più, ma fu tutto vano: non riuscimmo a strappargli i pantaloni.

Anche la distribuzione dei posti a sedere sul pullman era funzionale alle nostre goliardate. Aza Nikolic sedeva davanti e noi ci piazzavamo in fondo, il più possibile lontano da lui, per poter far casino. Il prof, infatti, era duro come il marmo anche al di fuori dei palasport e lontano dagli allenamenti o dalle partite: controllava tutto e, se una cosa non gli andava a genio, interveniva. Ad esempio, uno dei suoi comandamenti prevedeva che non bevessimo vino. Proprio all’inizio del suo ciclo a Varese, dunque nella seconda metà del 1969, arrivò addirittura a minacciare le dimissioni. Aveva avuto una vivace discussione con Paolo Vittori, che perorava la causa “enologica” della squadra. Giancarlo Gualco mediò, Ottorino Flaborea trovò il sistema di aggirare l’ostacolo: convinceva i camerieri a mettere il vino rosso nelle bottiglie della Coca-Cola e quello bianco in quelle dell’aranciata. L’espediente, però, ebbe vita breve. Aza, che non era fesso, mangiò la foglia. Così, dopo aver lasciato correre per quattro o cinque volte, un bel giorno guardò Ottorino e, sogghignando, lo smascherò: «Ehi, Flabo, io non ce l’ho mai vista Coca-Cola che non fa schiuma…». Ma noi eravamo delle canaglie e avevamo pure il pelo sullo stomaco. Così, più di una volta, agli Autogrill facemmo razzie al reparto salumi e affini: pane ferrarese, cacciatori, grana, il fiascone di vino… Sembrava una gita di boy scout. Pane e companatico finivano nascosti sotto i giubbotti o dentro i giornali, e in questa maniera venivano imbarcati sul pullman. Una volta ripartiti, in silenzio e trafficando sotto i sedili, ci mettevamo a spellare i salami e a preparare squisiti panini. Avevamo un complice: Marino Cappellini, che in occhiali scuri ci forniva il coltello. Nikolic non si accorse mai di nulla. Se l’avesse saputo…

Aldo Ossola e Dodo Rusconi erano l’anima di ogni birbonata, ma molto spesso il sodalizio si rafforzava con il mio contributo. Le rare volte in cui viaggiavamo in treno, ad esempio, io e Dodo non mancavamo di piazzare un chewing gum dietro una maniglia della porta che separava gli scompartimenti. Così, giusto per vedere la faccia di chi si trovava le dita impiastricciate. Uno svizzero, una volta che stavamo andando a Ginevra, capì tutto e ci apostrofò: «Ah, die Italiener!…».

A proposito di treni, mi viene in mente un episodio simpatico che risale al 1968 e dunque all’inizio del ciclo della grande Ignis. La trasferta era a Napoli e quella volta usammo il vagone letto: se non altro ci dava la possibilità di riposarci dopo la partita. Andammo in stazione dopo cena ma era ancora molto presto, mancavano più di due ore alla partenza. Lasciammo le borse e i dirigenti ci concessero di andare a zonzo per un po’, non prima di averci dato appuntamento alle 23.30 per salire sul treno. Io e Claudio Malagoli andammo in giro a fare casino. Quando tornammo, notammo il ragionier Augusto Ossola, mitico contabile del club e factotum in trasferta, che scrutava il marciapiede del binario, appollaiato sul predellino di un vagone. Quando ci scorse, si mise a urlare: «Disgraziati, la squadra!». Guardammo l’orologio: eravamo in ritardo di quindici minuti. Dopo che finalmente Ossola si fu calmato, riuscimmo a capire: controlla di qui, controlla di là, non si era accorto che avevano sganciato il convoglio e che lui, al quale era stato affidato il compito di raccattare noi due ritardatari, era rimasto sulle carrozze che non partivano. Morale della favola: la squadra se n’era andata, noi tre rimanemmo a Napoli”.

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