La recente scomparsa del cardinal Martini suggerisce come tema di meditazione il senso e la fecondità di una civiltà del dialogo, in cui ognuno, serbandosi fedele alla propria identità, si mette in gioco con gli altri nel cammino continuo in cui si ricerca la verità. E si tratta di una verità incarnata, storicizzata, dal basso, sulla scorta di S. Tommaso, più che dall’alto, come suggerirebbe un indirizzo platonico. In questo processo intellettuale ed esistenziale ingrediente necessario è l’abito dell’umiltà. Bisogna tracciare una via mediana tra fondamentalismo, etnocentrismo, primato assoluto preteso per la propria civiltà, autodifesa ostinata del proprio patrimonio di valori, che alla fine determinano uno scontro di civiltà, da una parte, e un multiculturalismo che contempla una coesistenza a compartimenti stagni, un cosmopolitismo identitario che prevede solo scambi di tipico civico ed economico e alla fine l’autoghettizzazione, dall’altra.
Bisogna invece ironicamente accettare il confronto, l’ascolto reciproco (senza ascolto non c’è dialogo), un cosmopolitismo di tipo dialogico, che favorisce l’interculturalità. Lo scopo, attraverso la mediazione, è la composizione pacifica delle vertenze, delle questioni aperte. Questo principio vale anche nel dialogo interreligioso, comprendendo quanto la Parola divina si sia fatta linguaggio umano nelle diverse culture, Logos e sarx storica, con cui il Cristianesimo si è incontrato in una sintesi feconda, inculturando il suo altissimo messaggio. In questo campo un concordismo generico può solo provocare ed essere al contempo il risultato di una confusione relativistica.
La missionarietà spinta dell’Islam, a parte la componente sufi, certo non favorisce il dialogo, ma nell’ambito della grande tradizione monoteistica è pur necessario istituire un confronto, che valorizzi gli elementi comuni, le comuni ascendenze, i fattori, che favoriscano, se non l’affratellamento in prima istanza, la reciproca comprensione. L’Islam è tutt’altro che una forma semplificata, rozza, fanatica e truculenta di monoteismo, adatta solo ai popoli del Terzo Mondo. Si tratta di una religione ascetica, che vieta d’imporla con la forza. Il Corano obbliga a perdonare, ad essere magnanimi ad es. nei riguardi del nemico vinto, la guerra santa è lecita solo come mezzo di difesa; il Corano recita: fate la guerra per la causa di Dio a coloro che vi fanno guerra, ma non siate aggressori. Iddio non ama gli aggressori. Le linee fondamentali della morale si rifanno al Decalogo. Quanto agli Ebrei, nostri fratelli maggiori nella fede, popolo eletto, dobbiamo pensare che noi cristiani siamo dei rami di ulivo selvatico innestati sul tronco santo dell’ulivo di Israele secondo Paolo (Rm 11, 16-17).
È poi di rilievo che ci liberiamo al nostro interno da parecchi equivoci: l’organizzazione ecclesiale non è di diritto divino, né rivelata, bensì è frutto di una evoluzione storica; la soluzione gerarchica è sempre la più facile, ma a scapito delle definizioni conciliari sulla specificità di competenze assegnate al popolo di Dio non consacrato.; bisogna che guardiamo alla realtà anche dal punto di vista fenomenologico, che sappiamo integrare la dimensione realistica della fede, legata alle essenze, con quella relazionale, simbolica. I principi legittimi di autorità ed obbedienza si concilino con quello sacrosanto della libertà di coscienza.
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