Il mio primo incontro con il caffè avvenne quando, avendo io raggiunto una certa autonomia di movimento, la nonna varesina Genesia, – oggi forse l’avremmo chiamata Jenny – mi consigliò di stare alla larga dalla cucina e soprattutto da un “caldarin” che più volte al giorno lei metteva sui fornelli a gas dopo un accurato rabbocco di acqua e caffè, quest’ultimo macinato in un congegno scricchiolante fatto di ruotine dentate messe in moto da una manovella che noi bimbi si azionava volentieri.
La reggiana nonna Maria, quando venne a vivere in famiglia, nel primissimo pomeriggio si concedeva l’attenta lettura del “Corriere della Sera” sorseggiando il suo “muretein”, ovvero morettino, e noi tutti si sapeva che assolutamente non dovevamo disturbarla: era un sentito dovere favorire quella che mezzo secolo dopo sarebbe stata definita la pausa caffè.
Quando le nonne, ancora oggi ricordate con infinito amore, se ne andarono, in famiglia i riti del caffè non furono più celebrati dalle nuove generazioni, nemmeno nei bar, insomma il termine caffè per noi finì per assumere un significato diverso, legato alla vita, alla storia di noti locali di alcune città italiane ed estere anche se non trascuravamo ovviamente il ruolo, di profilo più basso ma pur sempre rispettabile, svolto dai ritrovi disseminati nella città in cui vivevamo.
Già negli anni da scolaretto sapevo di caffè frequentati a Milano da celebrità delle arti e delle lettere: sfollato nel 1942 a Como avrei conosciuto invece la realtà, la funzione dei bar di provincia; anche come giornalista alle prime armi e sino al mio approdo a Varese, nel 1963, in genere dalle nostre parti ero ben lontano dal ricordare un locale pubblico per i suoi meriti culturali.
Ai piedi del Sacro Monte trovai però una comunità più attenta al ruolo di caffè, bar e circoli popolari nella crescita sociale. Non mi imbattei in singole storie di particolare interesse, ma i caffè, forse perché tutti concentrati in una ristretta area cittadina, forse perché favorivano l’aggregazione – proposta con varie attività da frequentatori intraprendenti – ecco che rappresentavano per la comunità uno stimolo, una opportunità, un esempio da non trascurare. Continuavano a essere dei ritrovi, ma i loro gestori erano anche abili nella “cattura” di personaggi di richiamo che approdavano nella Città Giardino per eventi legati alle varie stagioni: il turismo e l’ippica erano una forte attrattiva.
Al mio arrivo da Como molti varesini con intenti polemici mi presentarono una città dedita solo al lavoro e ai daneé. Evidentemente non conoscevano bene il capoluogo del Lario, dove allora rispetto a Varese c’era sì maggiore attenzione alla cultura però era una attenzione abbastanza elitaria, senza ricadute popolari, poco ricca di promozione e di condivisione, in sostanza di relativa utilità sociale. Unica eccezione la stagione lirica al “Sociale”.
Varese aveva già allora, e da tempo, parecchi appassionati di musica, teatro e belle arti: tutti dovevano spesso emigrare a Milano perché da noi non c’erano più le strutture di un passato degno di nota: per esempio come il teatro, demolito negli Anni 50.
Il miracolo economico dieci anni dopo tuttavia non aveva stordito la bella gente e la sua sensibilità, inoltre reagirono positivamente anche politici illuminati favorendo grandi battaglie per riavere il teatro. In seguito avrebbero avuto un loro peso i piccoli ma importanti segnali di riscossa che arrivavano da un microcosmo di uomini di cultura, da qualche libraio e negli Anni Ottanta, dal Premio Chiara e dalla “scoperta” di Renato Guttuso. Alla fine del secolo dalla nascita del caffè letterario venne una ulteriore moderna spinta a un consumo culturale molto articolato, ricco di contenuti e favorito da partecipazioni illustri. Furono preceduti i caffè da positive stagioni volute da musicofili, fotografi di rilievo nazionale, associazioni di ex allievi di scuole d’eccellenza o di appassionati d’arte o anche dall’iniziativa del singolo, come il professor Raffo e prima ancora come Salvatore Furia con la magia delle stelle.
Oggi i caffè letterari hanno formule tradizionali o innovative, ma tutti guardano comunque sempre ai loro papà, Guido Buono e Bruno Belli che li hanno introdotti nel nuovo secolo con entusiasmo e rara efficacia, facendone un appuntamento imprescindibile per una moltitudine di varesini. E la città continua a crescere anche grazie a queste offerte culturali, piccole ma sempre stimolanti e deliziose. Come un buon caffè.
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