Nel primo pomeriggio del 30 giugno 1963, una telefonata alla caserma dei Carabinieri di Palermo avvisava della presenza di un’auto sospetta parcheggiata davanti al viale di Villa Serena, nella borgata Ciaculli.
Era la premessa di una strage.
La pattuglia arrivata sul posto, e gli artificieri subito chiamati avevano creduto di trovarsi di fronte ad una bomba artigianale inesplosa, che era stata disinnescata. Ma le raffinate menti criminali mafiose avevano predisposto una seconda bomba, efficiente, che era deflagrata subito dopo, uccidendo sette persone: quattro Carabinieri, un poliziotto e due militari del Genio.
Non è mai stato chiarito se la predisposizione dell’attentato fosse un episodio che s’inseriva nella guerra di mafia che vedeva allora contrapposti i clan Greco e La Barbera, oppure – come l’assenza da Ciaculli di uno dei boss della famiglia Greco e la tecnica utilizzata potevano suggerire – una manifestazione di forza criminale direttamente indirizzata contro le istituzioni.
La prima reazione dello Stato è di impronta militare, con lo sbarco in Sicilia di migliaia di Carabinieri; quella dell’opinione pubblica, come in quegli anni era usuale, rimane prevalentemente confinata in un’indignazione senza obiettivi ben individuati.
Ma qualcosa accade a Palermo.
Il 7 luglio 1963 Pietro Valdo Panascia, pastore della chiesa valdese, fa tappezzare i muri della città di manifesti titolati “Iniziativa per il rispetto della vita umana”, in cui denuncia con il loro nome le violenze mafiose e rivolge un appello “a quanti hanno la responsabilità civile e religiosa” affinché promuovano il rispetto “della Legge di Dio, che ordina di non uccidere”.
A raccogliere lo spunto è monsignor Angelo Dell’Acqua, sostituto della Segreteria di Stato, il quale trasmette una lettera al Cardinale arcivescovo di Palermo, Ernesto Ruffini, con cui gli chiede – proprio citando l’iniziativa valdese – di valutare l’opportunità “anche da parte ecclesiastica, di promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi che le sono propri – d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale – per dissociare la mentalità della cosiddetta ‘mafia’ da quella religiosa e per confortare questa a una più coerente osservanza dei principi cristiani, col triplice scopo di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi e di prevenire nuovi attentati alla vita umana”.
Ma il Cardinale arcivescovo di Palermo risponde quasi risentito, ridimensionando la concretezza del fenomeno mafioso e (con un obiter dictum invero poco opportuno) negando qualsiasi relazione della comunità ecclesiale con “i delinquenti”. Scrive Ruffini a Dell’Acqua: “Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti i quali accusano la Democrazia Cristiana di essere appoggiata alla mafia, mentre difendono i propri interessi economici in concorrenza proprio con organizzatori mafiosi o ritenuti tali”. Secondo l’allora arcivescovo di Palermo, dunque, “trattasi di delinquenza comune e non di associazione a largo raggio […] sono vendette per torti ricevuti, altre volte contrasti per interessi privati, che creano gelosie e invidie; tal’altra sono giovinastri disoccupati che tentano di far fortuna con furti e ricatti; ma in nessun caso è gente che frequenta la Chiesa. In tanti anni di sacro ministero non ho mai potuto rilevare la più piccola relazione del clero con i delinquenti”.
Posizione che il Cardinale Ruffini confermerà solennemente il 27 marzo 1964 nella lettera pastorale “Il vero volto della Sicilia” (a seguito della quale il pastore Panascia il 9 aprile 1964 gli scrisse una lettera aperta per invitarlo al dialogo e ad aprire gli occhi sul vero volto della realtà criminale mafiosa).
Non si può affermare, superficialmente, che Ruffini “neghi” l’esistenza del fenomeno mafioso: egli, invece, introduce il termine “mafia” in documenti ecclesiali, in certo modo costrettovi dall’iniziativa di Angelo Dell’Acqua, che con la sua lettera, in maniera chiara aveva enunciato l’esistenza del fenomeno, cogliendone la pericolosità effettiva, e attribuendo alla Chiesa un ruolo nel contrasto ad esso.
In particolare va evidenziato il diverso approccio culturale tra i due ecclesiastici: Angelo Dell’Acqua crede in quella che oggi chiameremmo “educazione alla legalità” e che con il linguaggio dell’epoca, non meno incisivamente egli definisce “promuovere un’azione positiva e sistematica con i mezzi […] d’istruzione, di persuasione, di deplorazione, di riforma morale” con lo scopo, tra l’altro “di elevare il sentimento civile della popolazione siciliana, di pacificare gli animi”; Ernesto Ruffini non solo nega l’utilità di questo approccio, ma disconosce il valore dell’analisi politica e giudiziaria, focalizzando le sue richieste sulla repressione poliziesca: “L’inchiesta in corso sulla mafia – che riveste un carattere marcatamente politico – non raggiungerà lo scopo voluto se non si provvederà a rafforzare la Polizia, dandole maggiori poteri. Sono incredibili le limitazioni poste alla vigilanza sul buon costume e alla difesa del vivere civile”.
La storia successiva dimostrerà la necessità di una reazione complessiva al fenomeno della criminalità organizzata e diffusa, in ogni contesto ambientale; una reazione di civiltà alla quale la Chiesa non può essere estranea.
Del resto – la questione peraltro è discussa – non si può ritenere che l’iniziativa di monsignor Dell’Acqua potesse essere estranea a una visione condivisa nella Santa Sede, in cui proprio pochi giorni prima della strage di Ciaculli, il 21 giugno 1963, era asceso al soglio pontificio Paolo VI.
Angelo Dell’Acqua, ordinato sacerdote a Sesto Calende, e sempre legato a questo territorio, sarà sostituto alla segreteria di Stato sino al 1967, anno in cui diverrà Cardinale, confermando, sino alla morte, nel 1972, una capacità di analisi che merita che la sua figura venga riscoperta e studiata.
You must be logged in to post a comment Login