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Società

CONFESSIONE D’UN CACCIATORE PENTITO

ROMOLO VITELLI - 21/09/2012

In una recente trasmissione radiofonica di Prima Pagina di RAI3 è stata letta e commentata dal giornalista Giorgio Dell’Arti, curatore del Foglio dei fogli, e dai radio-ascoltatori intervenuti l’intervista: La contessa cacciatrice uccide il cervo e poi lo bacia. Nell’intervista al quotidiano l’Adige la contessa Maria Luisa Pompeati, della stirpe dei von Ferrari Kellerhof, imparentati con Giulio Ferrari degli spumanti, parlando dei suoi numerosi trofei, racconta che la sua passione per la caccia le è nata, sin da piccola, in famiglia.

Ecco alcuni frammenti della lunga e sconcertante intervista pubblicata il 2 settembre scorso.

 Cosa prova quando vede la preda, mira e spara?

“È una forma di liberazione, è l’adrenalina compressa che ha sfogo. Il cuore batte forte e l’emozione è al massimo. La caccia infatti ha tutta una preparazione e un’attesa, che ha il suo compimento quando si coglie la preda. (…) Io sparo soltanto quando sono certa che il mio colpo è mortale. (…) Io poi corro dal cervo prendo tra le mani la sua testa, l’accarezzo, arrivo persino a baciarlo, in certi casi lacrimo di gioia”. (…)

Ha mai avuto rimorsi o sensi di colpa per aver abbattuto un animale?Mangia la selvaggina o la imbalsama soltanto? “No, non ho avuto rimorsi perché non c’è crudeltà. È un atto d’amore.(…) Certo che la mangio. È il completamento di questa storia d’amore. Si ama così tanto da farlo proprio, da possederlo. Nessun altro te lo potrà più portare via”. (…)

L’intervista, come era naturale, ha suscitato reazioni contraddittorie tra lettori e radio – ascoltatori. Molti hanno criticato il giornale per aver dato tanto spazio al cinismo della contessa; altri invece hanno “apprezzato la contessa per aver avuto il coraggio di dire quello che pensa.”

Qui di seguito riporto pochi e brevi stralci di alcuni commenti, tratti dal giornale.

“Ho letto con grande interesse l’intervista alla contessa Pompeati, cacciatrice passionale. Immagino già le urla scandalizzate di tanti pseudo-animalisti, a me invece le parole della contessa sono piaciute, quel suo paragonare la caccia, lo sparo, ad un atto d’amore nei confronti dell’animale-preda mi ha colpito. Non sono un cacciatore, è una cosa che non mi interessa, ma in quelle parole ho trovato sincerità, amore per la natura, per i suoi animali e anche una vena romantica, di autentica poesia”.

“Finalmente i cacciatori gettano la maschera. Ci avevano ripetutamente detto che il loro “nobile” mestiere serviva a garantire l’equilibrio naturale, avevano rivendicato per anni il ruolo che essi giocavano nella selezione delle specie, dichiarando che uccidevano gli esemplari deboli e malati che sopravvivevano solo grazie alla scomparsa dei grandi predatori, ma finalmente oggi sappiamo la verità. Non c’entra niente la selezione artificiale, non c’entra niente l’ambiente né la “custodia della creazione”, men che meno il “delicato equilibrio della natura”

Ed infine questo ultimo frammento di una lettera, diciamo un po’ surreale e paradossale di un lettore “buontempone”:

“Questa intervista è sintomatica di come, oramai, sia possibile affermare qualunque cosa, mistificare la realtà, oppure negarla. Di fronte ad affermazioni del genere, a questo punto, vale tutto. Pensi signora contessa se un giorno qualcuno volesse amarla allo stesso modo: osservarla con amore nel suo habitat e poi, come estremo atto di amore, spararle – un colpo solo, preciso, per non farla soffrire. Poi chiaramente la bacerebbe da morta e infine la imbalsamerebbe. Che ne dice contessa? Felice di essere amata così devotamente.”

Gli amanti della caccia, quando scoppiano polemiche del genere, amano talvolta citare S. Turgenev (1818-1883), lo scrittore russo di “Memorie di un cacciatore” per il quale il cacciatore vedeva, sentiva, odorava come vedono, sentono, odorano le beccacce, le lepri, gli usignoli, le folaghe, le anatre selvatiche. “(…) Chi, a parte i cacciatori” – dice Turgenev – “ha mai provato il piacere di errare fra gli arbusti all’alba? Le tracce dei loro passi lasciano un solco verde sull’erba rugiadosa e biancastra.” Invece, quelli notoriamente contrari alla caccia: gli animalisti e gli ambientalisti in genere, molto più prosaicamente, ricordano le 20.000 tonnellate di piombo inquinante che i cacciatori spargono ogni anno nei boschi, negli acquitrini, nei campi, “alla faccia dell’ambiente”. Essi si dicono fieri di non aver praticato mai la caccia, fieri di amare gli animali rispettandone la vita, fieri di non contribuire all’arricchimento delle aziende che producono armi.

Non vorrei entrare nel merito delle affermazioni della contessa, né sulle varie questioni sollevate dai lettori ed ascoltatori, né nelle polemiche tra cacciatori ed ambientalisti ed animalisti, pro o contro la vexata quaestio della caccia, vorrei limitarmi perciò, come cacciatore pentito, a dare la mia testimonianza in proposito. Spero così di dare un contributo ad una migliore comprensione delle motivazioni che spingono i cacciatori, per fortuna sempre meno, ad andare a caccia e ad indicare a chi lo volesse la via per liberarsi da questa passione.

L’istinto primordiale venatorio, che richiama prepotentemente la nostra origine animale, è insito nell’uomo sin dalla sua nascita. Questo istinto può o meno nascere, svilupparsi sino a diventare una passione se vi sono condizioni ambientali e tempi favorevoli alla sua crescita. Ad esempio: se da piccoli si vive a contatto con le armi e se c’è qualche famigliare: padre o fratello o altro, che pratica la caccia è probabile che il piccolo neofita, respirando attorno a sé tutta un’atmosfera venatoria si appassioni più facilmente a questa pratica rispetto ad un altro che non vive queste situazioni, né un’analoga atmosfera. Si incomincia prima a seguire l’adulto cacciatore e poi da grandi magari si finisce con l’ impugnare un fucile. Ed è quello che è capitato più o meno a tanti cacciatori ed è successo anche a me. La cosa del resto viene confermata dalla contessa quando racconta che la sua passione per la caccia l’ha avuta “sempre nel sangue”. “Avevamo una galleria di armi antiche e di trofei di caccia. A vent’anni mi sono sposata, e con mio marito cacciatore ho cominciato ad andare a caccia regolarmente.”

Personalmente sono vissuto in caserma e lì, di armi, ve n’erano a iosa: pistole, moschetti, fucili da caccia requisiti eccetera; e c’era anche un fratello che le usava per cacciare. Allora negli anni ’43/‘44 ero piccolo e seguivo con passione questo mio fratello maggiore, che consideravo un mito e che sparava a tutto quello che si muoveva intorno. Poi diventato più grandicello mi feci una fionda e divenni sempre più bravo nel cacciare, con una mira quasi infallibile. A 25 anni comprai un fucile da caccia, un sovrapposto calibro 12, il mio sogno sin da adolescente. Il fucile divenne per quasi dieci anni un compagno inseparabile, insieme alla cartucciera, nelle lunghe passeggiate pomeridiane fatte per rilassarmi dall’impegno stressante del lavoro d’insegnante, ma anche dal faticoso impegno politico.

Ho provato, come tanti cacciatori, l’emozione intensa e fortissima che procurano le albe sugli acquitrini al primo risveglio della natura: gli odori intensi degli arbusti scostati e delle erbe rugiadose calpestate dagli stivali nei boschi, il canto degli uccelli al primo risveglio; e posso confermare che forse solo i cacciatori, come dice Turgenev, sanno assaporare e vivere sino in fondo questa inebriante atmosfera. Quante volte sono rimasto, fermo in trepida ed emozionante attesa, circospetto ed attento a percepire ogni “stormir di foglia”, ogni fruscio di foglie d’alberi, mosse dalla brezza mattutina, tra le marcite e le paludi dai riflessi scintillanti all’apparir del primo sole.

I primi a svegliarsi erano i beccaccini che noi identificavamo facilmente per il canto e il volo maestoso e velocissimo. E’ difficile colpirli perché volano quasi raso terra a zig-zag prima di alzarsi a notevole altezza, lanciandosi successivamente in picchiata. Colpirli a volo, mentre schizzavano verso il cielo, era segno di bravura e dava una gratificante soddisfazione. Gli anni di caccia mi hanno regalato relax, riunioni, banchetti conviviali, a base di beccacce e lepri; racconti venatori dove ogni cacciatore narrava le sue prodezze; e i trofei erano sempre ad ogni storia più “ricchi”, catturati da “mire infallibili.”

Sono ricordi di tempi lontani, di un “giovane ignaro di sé e del mondo” che mal si conciliano ormai con la mia nuova identità e sensibilità di animalista. Anche per me, come del resto per ogni cacciatore pentito, c’è stato un episodio di caccia, che mi ha indotto ad una profonda riflessione e ad un atteggiamento più responsabile verso gli animali e la natura in genere.

Ero a caccia presso dei parenti ed amici in Piemonte; avevamo circondato un campo di mais dove si pensava vi fossero delle lepri, annusate dai cani. I compagni di battuta avanzavano dentro il campo e ai lati per fare uscire la selvaggina e a me, sapendo che avevo una buona mira, avevano affidato il compito di abbattere la selvaggina. Vedevo che le cime delle piante di granturco si muovevano sempre più verso di me, segno questo, che la preda, scacciata dai suoi giacigli, avanzava.

E infatti, di lì a poco, a una trentina di metri da me, sbucò una lepre. Presi la mira, sparai e l’animale fece un balzo in aria, e stramazzò al suolo; la raggiunsi, non era ancora morta, fremeva tutta e mi guardava con uno sguardo che lasciava trasparire incredulità e sofferenza.

In altre occasioni avevo raccolto prede ferite o moribonde, ma mai nessuna mi aveva turbato così tanto. I miei compagni di battuta si complimentarono con me, per il bel colpo e vollero che la prendessi io; ma io quella lepre, nonostante l’insistenza non la volli nel mio carniere né riportare con me in Abruzzo.

Qualcosa si era rotto tra me e la caccia. Quella scena mi tornava di tanto in tanto in mente, anche oggi a distanza di quarant’anni, rivedo nitidamente gli occhi di quella lepre morente.

Che cosa mi stava succedendo? Come mai la mia passione per la caccia, che prima mi dava tante soddisfazioni ora era diventata fonte di rimorsi ed inquietudine? Continuavo a riflettere mentre le battute di caccia diventavano sempre meno frequenti, costringendomi ad accampare impegni inesistenti per sottrarmi agli inviti dei compagni di battuta.

Il mio processo di maturazione era andato avanti, mi stavo umanizzando e mi stavo liberando del mio istinto animalesco primordiale; ma ci vollero altri momenti, altre catture, altre letture e riflessioni e la passione animalista ed ambientalista di mia moglie per farmi comprendere la nuova fase che stavo vivendo e che mi portò in seguito ad abbandonare la caccia e a regalare il mio fucile e le cartucce ad un amico cacciatore.

Debbo dire per la verità che per me, almeno sino ai trentatré anni, la caccia, per come era nata, per l’ambiente dove vivevo, privo di altri svaghi, ha svolto una funzione positiva. E’ stata una fase necessaria ed inevitabile del mio processo di maturazione verso una più consapevole ed avvertita umanità, rispettosa dell’altro e della natura in genere. Quello che stavo vivendo era la fase del passaggio dall’animalità all’umanità e questo lo compresi solo più tardi a pieno, riflettendo sempre più a fondo sul significato della scuola e sul valore della cultura.

A rileggere l’intervista della contessa a prima vista sembrerebbe che non vi siano differenze tra lei e la mia gatta. Entrambe sono attratte dal loro istinto a cacciare senza posa. La mia gattina non uccide però cervi o daini o beccacce, ma prende altri animali alla sua portata: topolini, scoiattolini, uccellini, con i quali una volta catturati ci gioca, li accarezza, poi me li porta con orgoglio in “dono” e come trofei da mostrare. Eppure a ben vedere una differenza c’è. La gatta non può smettere di cacciare perché è il suo istinto felino connaturato alla sua essenza animale che lo comporta; la contessa può liberarsi della sua animalità, se lo vuole. L’animale nasce animale e non può che morire animale – come dice il filosofo danese Kierkegaard – ed è questo ciò che distingue ogni animale dall’uomo. Per il filosofo danese “l’esistenza precede l’essenza,” nel senso che l’uomo a differenza dell’animale diventa ciò che è come conseguenza delle sue scelte, può diventare qualsiasi cosa, un santo o anche una belva, un mostro sanguinario.

 Quindi “nascere uomini è facile” – come dice Moni Ovadia – “ma diventarlo non basta una vita!” Ma come si diventa uomini? “L’uomo” – dice E. Kant, ne la Pedagogia – “non può diventare vero uomo che mediante l’educazione, ed egli è qual essa lo fa.”Quindi per uscire dall’animalità e diventare uomini sono necessari scuola e cultura. Ed è quello che mi hanno fatto comprendere sino in fondo vari filosofi e pedagogisti e soprattutto un dialogo tra un papà e il suo figliolo in una pagina illuminante di Dialogo sull’educazione dell’umanista, filosofo e pedagogista spagnolo del ‘500, J. L. Vives, intitolata appunto: Per distinguersi dagli animali; e la lettera che un preside ex- internato in un lager tedesco ha indirizzato ai propri insegnanti il primo giorno di scuola dei quali riporto i passaggi più significativi, apportando ai due testi alcune modifiche per snellirli ed abbreviarli: (..) Padre: il tuo cagnolino Ruscio, è una bestia o un uomo? Bambino: Una bestia, almeno credo. Padre: che cos’hai tu che egli non ha per essere un uomo? Mangi, bevi, dormi, cammini, corri, giochi. Anche lui fa tutte queste cose. Bambino: Ma io sono un uomo. Padre: Come lo sai? Che cosa possiedi più del cane? Ma pensa alla differenza: lui non può diventare uomo.

 Tu sì che puoi, se lo desideri se andrai là dove vanno le bestie e tornano gli uomini cioè a scuola. Però la scuola e la cultura che sono deputate alla formazione dell’uomo e del cittadino non devono creare – come dice il preside ex internato - mostri eruditi, psicopatici sapienti, o dotti Eichmann, ma aiutare gli alunni a diventare umani. La lettura, la scrittura e l’aritmetica in sostanza saranno cose” importanti soltanto se serviranno a rendere i nostri figli più umani.”

Dal che si deduce che se vogliamo distinguerci dagli animali lo possiamo fare studiando le humanae litterae che, coltivando e dirozzando l’animale che è in ciascuno di noi, ci aiuteranno a liberarci dalla nostra visione antropocentrica. Solo così, con uno sforzo incessante di crescita culturale, non facile e né indolore, potremo fra emergere l’umanità che è in noi, maturando una visione d’interconnessione tra il mondo umano e quello animale, consci che non dovrebbero esistere muri divisori tra i diritti della nostra specie e le altre.

Nelle due immagini, tratte dal servizio del quotidiano Adige, la contessa con i capi abbattuti

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