L’America della crisi si appresta, il 6 novembre prossimo, a confermare la scelta del presidente Barack Obama o a sostituirlo con l’antagonista Mitt Romney.
Ma non siamo più nell’era keynesiana, quando il New Deal di Franklin Roosevelt riuscì a far superare la “grande depressione”, con l’intervento dello Stato nel sostegno all’economia, raccogliendo un consenso “bipartisan” tra democratici e repubblicani che continuò fino agli anni Ottanta quando Ronald Reagan rovesciò il tavolo delle intese e introdusse una polarizzazione della politica che dura tuttora.
Da qualche decennio le elezioni spaccano il Paese in due parti con una netta e contrapposta visione ideologica della politica e dell’economia.
“Quando prenderete in mano la vostra scheda – ha detta Obama – avrete di fronte a voi la scelta più netta della vostra generazione. Non solo tra due candidati e due partiti ma tra due diverse vie per l’America”.
I repubblicani, dominati in questa fase dalla destra conservatrice, pensano che il benessere della nazione possa essere raggiunto con il ridimensionamento del governo lasciando ai mercati e alle imprese piena libertà di agire e di crescere. Il programma è: meno tasse, meno regole, meno spesa pubblica. La scelta è tra il “big business” e il “big government”, ovverossia “frenare la crescita economica o frenare la crescita del governo”.
I democratici fanno rilevare che il Paese più ricco del mondo non ha un “Welfare State” lontanamente paragonabile a quello dei Paesi dell’Europa; solo durante il mandato di Obama è stata realizzata la diffusione e tutti i lavoratori di una polizza pagata dallo Stato per accedere ai costosi servizi sanitari in mano ai privati.
Il reddito prodotto è alto ma viene distribuito in modo da favorire i ricchi e le ricchezze di questi “gocciolano dagli strati alti della società verso le classi medio-basse”, realizzando quello che è stato definito come il “capitalismo compassionevole”.
Il ceto medio è però preoccupato per la mancanza di lavoro e i disoccupati, nonostante gli sforzi della presidenza, non diminuiscono.
È vero quel che ha ricordato Bill Clinton alla “convention” democratica che “i presidenti democratici hanno creato milioni di posti di lavoro in più dei loro rivali repubblicani”, però quello che conta nell’opinione pubblica non è il ricordo del passato ma la preoccupazione per l’incerto futuro.
Il dibattito tra i due partiti non è solo retorica elettorale: Obama ha ammesso che se verrà rieletto dovrà aumentare le tasse mediamente del 22,5 per cento per i prossimi dieci anni; Romney afferma che il venti per cento basta e avanza. Non si tratta di una quisquilia ma di ben seimila miliardi di dollari che potrebbero cambiare parti importanti del “sistema americano” come l’istruzione, la sanità e, ovviamente, il fisco.
Gli americani sono chiamati a decidere quale sarà la direzione che avrà nei prossimi anni l’economia più importante del pianeta con conseguenze importanti anche per l’Europa e il resto del mondo.
La sfida, dicono gli esperti, si deciderà forse per un pugno di voti, ma determinante sarà il “budget” dei due candidati per sostenere, con costosissimi “spot” televisivi, la loro dispendiosa campagna elettorale.
Chi investe, sull’uno o sull’altro dei contendenti, pensa però di potersi rivalere tramite le politiche attuate dal futuro governo.
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