Meditiamo in questo tempo di ladri pubblici e privati, evasori fiscali, farabutti in genere, su queste parole: “Affinché il passare dei mesi non attenui il ricordo e la considerazione per quell’esercito di volontari ai quali quasi esclusivamente fu affidato – in un primo tempo almeno – l’immane compito di provare a tutti gli italiani e al mondo intero che il nostro popolo sa ancora amare la libertà fino a dare la sua vita per conquistarla e per difenderla; per questa ragione soprattutto ritengo mio dovere prendere la parola, non nell’intento di esaltare i combattenti del periodo eroico della guerra di Liberazione – sarebbe a ciò la mia voce insufficiente – ma per ricordare il loro sacrificio, per ricordarlo a me e a tutti i presenti onde, nelle gravi cure dell’ora attuale, ci sia di conforto, di ammonimento e di sprone a perseverare nel cammino lungo e difficile che ancora ci resta da percorrere”.
Era trascorso un anno dall’insurrezione contro i nazifascisti, il 24 aprile 1946, e così parlava a Roma all’apertura del Congresso Nazionale della Democrazia Cristiana, Enrico Mattei, l’uomo della Resistenza che, accanto al varesino Aristide Marchetti “Ares”, Alfredo Di Dio, Eugenio Cefis, Attilio Moneta nelle file della Divisione “Valtoce” con la “Valdossola” di Dionigi Superti contribuì a fare di quello stretto e lungo lembo di terra che era l’Ossola al confine con la Svizzera una Repubblica democratica durata solo quaranta giorni sino alla fine d’ottobre del ’44 mentre tutto attorno c’era l’inferno della occupazione nemica.
Mattei, l’uomo della Resistenza, ma anche l’uomo della rinascita dell’Italia, l’uomo dell’ENI (quando il 30 aprile 1945 fu nominato Commissario dell’AGIP per l’Alta Italia per la liquidazione di un’azienda ridotta a distribuire prodotti petroliferi di altri, data per defunta, sembrò a prima vista una sorta di provocazione per la relativa importanza dell’incarico), l’uomo che, senza paure, sfidando la “Sette Sorelle”, le potenti produttrici di metano e petrolio, sarebbe finito morto ammazzato a cinquantasei anni di età nei cieli lombardi..
Mattei – di cui hanno rievocato la straordinaria figura su Il Sole 24 ore del 2 settembre Valerio Castronovo, Mario Pirani, Benito Li Vigni e Roberto Escobar – aveva trasferito dalla vittoriosa lotta armata contro l’oppressore alla nuova Repubblica, tutti i valori in cui aveva creduto. Dalle parole, alle fucilate, ai fatti. Dalle speranze e dal sangue dei fratelli in arme ai progetti e ai gesti concreti. Mattei aveva creduto che compito preminente di coloro che avevano combattuto per la fine della dittatura e della guerra, fosse quello di porre le fondamenta di un nuovo ordine democratico e di un programma su solide basi di uno sviluppo economico affinché gli italiani tornassero padroni del proprio destino. Da quel momento Mattei diventò il simbolo di quell’ideale percorso: strenua dedizione alla causa del Paese e vigorosa passione civile espressa in Italia e all’estero. Sfuggirebbero altrimenti le motivazioni di un così tenace impegno di vita, lo stesso messo in campo nella lotta sui monti.
La vita di Mattei non poggiava sulla sabbia ma aveva radici nell’esperienza di povertà familiare e poi del duro lavoro sin da ragazzo nella fabbrica. Lì aveva imparato a conoscere “gli altri”, i suoi simili, i suoi fratelli.
Mattei era figlio di un sottufficiale dei carabinieri, primo di cinque fratelli. Era nato nel 1906 ad Acqualagna nelle Marche. L’educazione ricevuta era stata severa. Appena quattordicenne, dopo la scuola tecnica, aveva fatto il verniciatore, poi il garzone in una conceria bruciando le tappe sino a diventare assistente della Direzione e poi caporeparto. Al ritorno dal servizio militare nei Granatieri di Sardegna, aveva perso il suo posto di lavoro. A quel punto, la decisione era stata immediata. Salire a Milano, prima piazzista alla Max Meyer, poi rappresentante di un ditta di smalti e di solventi. Il gran salto era al di là dell’angolo: con un po’ di risparmi e qualche prestito aveva messo su un opificio di prodotti chimici ricavato da un vecchio capannone, a Dergano alle porte di Milano.
Alla vigilia della guerra Mattei aveva raggiunto già un discreto livello di vita ma il lavoro non aveva rappresentato solo il mero guadagno materiale. Era stato un’occasione di incontri, valutazioni politiche, osservazioni sociali. Mattei era il cristiano vero, senza paludamenti, bacchettonerie, blocchi dogmatici, rosari al vento. Nel 1942 il salto di qualità: i contatti con il mondo della “giustizia sociale” e della “libertà” con il fascismo declinante. Le conoscenze di Giuseppe Dossetti (partigiano a Capriago di Reggio Emilia), Ezio Vanoni (valtellinese), Giuseppe Spataro, Orio Giacchi, Enrico Falck (finanziatore della Resistenza), Marcello Boldrini lo “statistico” della “Cattolica”.
L’8 settembre era ritornato a casa per costituire nella regione natia un primo nucleo partigiano. Spataro sulla spinta di quella ottima esperienza, aveva affidato al giovane allievo la guida delle formazioni cattoliche, una minoranza audace, della Lombardia. Era nata così la DC popolare, antifascista e combattente che anche a Varese aveva conosciuto il sorgere con il Comitato di Mario Ossola, di Giovanni Fachinetti, di Rino Pajetta e di Carlo Macchi, fratello di don Pasquale, il futuro segretario di papa Montini, gruppo caduto al completo il 7 ottobre 1944 con l’arresto e la deportazione di molti componenti.
Membro dal marzo 1944 del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) e, dall’agosto del Corpo Volontari della Libertà (CVL), Mattei si era distinto non solo sul terreno militare ma su quello organizzativo attivando i canali dei finanziamenti nella cerchia delle sue molte conoscenze. Alcune pagine di Aristide Marchetti – il partigiano Ares – nel libro Il Ribelle ristampato lo scorso anno da Hoepli a mezzo secolo dalla prima edizione, con una intensa prefazione di Marino Viganò, parlano anche di lui, delle sue gesta, della sua generosa dedizione alla lotta, della sua determinazione a dare visibilità alla DC negli organismi dirigenti resistenziali, impegno che si sarebbe tradotto nel suo inserimento nel luglio del ’45 nel Consiglio Nazionale della DC.
Il Commissariato AGIP, “letto” sulle prime come una sottovalutazione dei meriti e delle qualità di Mattei, non fu tale. L’AGIP non si perse per strada. Passo dopo passo crebbe sino a diventare un gigante. L’azione di Mattei avrebbe assicurato al Paese quello sviluppo che i grandi monopoli non avevano saputo dare in tanti anni di liberismo. L’ENI divenne un modello da imitare, un reticolo di imprese di Stato diversificate, funzionanti, attive, in linea con la celebre massima di Mattei: “ non dobbiamo esportare i nostri lavoratori ma il nostro lavoro”.
L’azione “terzomondista” di Mattei venne a rompere l’assedio delle grandi compagnie petrolifere anglo-americane (le “Sette Sorelle”) che dominavano il mercato del greggio medio-orientale ed africano imponendo ai Paesi produttori di petrolio (compresa l’Italia) rapporti di tipo “imperialistico” e ai Paesi consumatori prezzi elevatissimi.
Per Mattei si era posta a quel punto una scelta: subire o rompere questo accordo che avrebbe stroncato, se fosse continuato, il Paese. Mattei sognava un’Europa dei produttori in grado di bilanciare il peso del resto del mondo. Andò in URSS, si affacciò in Medio Oriente, guardò al Mediterraneo. I sogni avevano marciato sul filo di un sano realismo. L’oleodotto asiatico agganciava quello europeo. Italia, Francia, Spagna (dopo la dittatura franchista), Germania, sarebbero state le colonne della Comunità energetica europea, costituita da aziende di Stato, in grado di gestire assieme i rapporti coi Paesi produttori di petrolio. Una rottura con ogni costrutto imperialistico e uno scenario di sviluppo e di pace. Il disegno immaginato da Enrico Mattei, sappiamo, corse il rischio di non potere reggere alla voracità di chi voleva continuare a dominare il mondo. Fu assassinato.
Qualche anno prima nel 1952 questo grande uomo aveva visitato a Busto Arsizio il suo vecchio mondo partigiano, quello della Divisione “Alto Milanese” di Luciano Vignati, poi consigliere provinciale a Varese, a sua volta ex grande partigiano. Mattei era parso intimorito davanti al microfono e alla folla di sostenitori della DC ma era stata solo una sensazione, una cosa passeggera. Lui che non amava parlare in pubblico, aveva iniziato il suo dire così: “Vogliate perdonarmi se sarò costretto a parlarvi in modo scarno e dimesso”. Un incipit sorprendente di chi stava già brillando di una potente luce propria. Una imbarazzante differenza con chi, negli anni a venire, avrebbe sproloquiato senza farsi capire, i capipopolo di una organizzazione di portaborse, affaristi, doppiogiochisti “con tutta la boria – ha scritto Mario Pirani – di una generazione senza arte né parte e, soprattutto, senza pudore”.
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