Quando apparve conclusa la battaglia di Nikolajewka – senza nemmeno sapere che era stata l’ultima della ritirata, l’ultimo “cancello di fuoco” – alcuni ufficiali superiori chiesero al sergente degli alpini Rigoni chi si fosse particolarmente distinto, chi a suo giudizio dovesse essere inserito in elenco per meritare un encomio. “Il tenente Cenci è tra questi”, rispose. In realtà Rigoni e Cenci, entrambi della Tridentina e del battaglione Vestone, tutti e due protagonisti di quella disperata epopea che era stata la fuoruscita dalla sacca, inseguiti dai colpi delle “katiusce” e dalle scorribande dei cosacchi, si erano persi di vista, proprio all’entrata del borgo di Nikolajewka. Ma qualcuno invece l’aveva visto il tenente Cenci, che si lanciava giù per un pendio innevato impugnando due revolver – come un cowboy – e sparando all’impazzata. Poi l’avevano visto cadere nella neve. Forse morto; in ogni caso, morto da eroe. Ed era già divenuto leggenda.
Invece Cenci era rimasto ferito, ferito alle gambe. I suoi alpini bresciani l’avevano recuperato, deposto in una slitta e messo in salvo. Così ricominciava per lui un’altra durissima e penosa ritirata. Così sarebbe ritornato in Italia. Gli ufficiali accolsero di buon grado la proposta del sobrio sergente Mario Rigoni Stern: il suo tenente fu decorato con medaglia d’argento al valor militare per il coraggio di quell’ultima azione, anche se era davvero difficile tracciare delle linee che separassero il coraggio dalla follia, l’eroismo dalla disperazione.
Il nome di Nelson Cenci compare spesso nei libri sulla ritirata: da quello forse più famoso, “Il sergente nella neve”, scritto proprio da Rigoni Stern, a quel magistrale, commovente reportage di guerra che è il volumetto “La ritirata di Russia”, di Egisto Corradi. Le imprese di Nelson hanno un sapore di leggenda che molti della mia generazione – la generazione dei figli, cioè di coloro che per fortuna le storie di guerra le hanno apprese dai libri e dai racconti dei padri – per qualche tempo addirittura avevano creduto che il nome Nelson Cenci fosse di fantasia, scelto per indicare una sorta di guerriero Orlando della ritirata di Russia.
Invece il tenente Nelson Cenci esisteva realmente. E molti varesini hanno avuto la fortuna di conoscerlo di persona, di apprezzarne la disponibilità e la professionalità – egli per lungo tempo fu primario del reparto di otorinolaringoiatria dell’Ospedale di Circolo –, e di volergli bene anche.
Il tenente Cenci non ha mai incorniciato la sua storia personale. Anzi credo che, come tutti gli eroi della ritirata, tendesse a dimenticare, e a ricordare di quell’incredibile vicenda solo gli aspetti di un’impensata umanità: nella tarda primavera del 1943, il tenente Cenci, ferito, tornò nella sua Romagna – era nativo di Rimini – e trovò rifugio nelle gallerie del monte Titano, la montagna della Repubblica di San Marino per sfuggire alle bombe che dal cielo e da mare, letteralmente, radevano al suolo la città adriatica; poi riprese gli studi e si laureò in medicina a Milano. Alla fine del periodo trascorso all’Ospedale di Varese, acquistò con i risparmi e con i denari della buonuscita un podere in Franciacorta, per stare vicino agli alpini che gli avevano salvato la vita, e si mise a produrre, tra gli altri, un vinello rosso che aveva battezzato “Ritorno”, come il bellissimo libro scritto per Rizzoli, in cui aveva narrato le sue vicende militari. Negli ultimi anni furono numerose le occasioni in cui, venuto a Varese, fu ospitato nelle scuole. Ai ragazzi parlava di pace. Se raccontava la sua esperienza, era solo perché i giovani, sapessero di quale e quanta fortuna potevano godere evitando una tragedia come la guerra, la vera follia umana.
L’amicizia e la pace risiedevano nel cuore di Nelson Cenci.
In bella mostra – nel salotto della sua casa di Brescia – c’era una foto che lo ritraeva in bicicletta sul lungomare di Rimini, in viale Vespucci, insieme con due suoi carissimi amici: Federico Fellini e l’avvocato Titta Benzi. Avevano solo vent’anni.
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