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Attualità

LA BELLEZZA DELL’ESSERE CRISTIANI

GIAMPAOLO COTTINI - 07/09/2012

Il cardinal Martini in visita al carcere di San Vittore

L’unanime riconoscimento tributato al cardinal Martini in questi giorni è certamente uno dei segni storicamente più evidenti della grandezza della sua figura e della imponenza della sua opera. I commentatori e la gente comune hanno cercato di definirne la statura umana e cristiana a partire da qualche singolo tratto della sua personalità, ma sarebbe riduttivo cercare di delimitarne la figura con slogan troppo semplificatori, magari giocati su contrapposizioni: espressioni come quelle che paragonano un Martini progressista ad una Chiesa conservatrice e passatista, oppure un vescovo aperto a tutti in opposizione ad un Papa più tradizionalista sui temi scottanti della fede e della morale, o anche definizioni che ne fanno solo l’uomo della Parola come grande biblista e fine intellettuale in ascolto della modernità per comprenderne le ragioni, finirebbero per oscurare i tratti più profondi dell’uomo e del pastore.

Certo, esperienze come la cattedra dei non credenti (che consegue al pressante invito ai fedeli alla contemplazione attenta del Mistero di Dio e alla lettura della Parola per eccellenza) sono state un punto originale di rilancio dell’attività missionaria della Chiesa ambrosiana, ma la grandezza di tali intuizioni si comprende solo collocando il suo magistero e la sua opera pastorale all’interno della tradizione vivente della Chiesa e non come alternativa ad essa.

Per evitare giudizi parziali, preferisco perciò scegliere la strada di ricordare qualche tratto della sua personalità, meno conosciuto perché legato ad alcuni incontri personali, avendo potuto gustare anche la presenza del cardinal Martini in circostanze meno ufficiali, lasciando spazio a qualche ricordo personale.

Mi piace partire dal modo con cui guidò lo svolgimento del sinodo 47º della chiesa ambrosiana, partecipando a tutte le sedute con attenzione straordinaria e prendendo buona nota di tutti gli interventi. Ricordo con quanta favore accolse la relazione sul capitolo della famiglia, elaborato dal gruppo di lavoro di cui facevo parte e che mi aveva affidato l’incarico di stenderne il testo. Non perse una parola, e alla fine mi ringraziò per il lavoro che avevo fatto ricordando la centralità della famiglia nella vita della Chiesa. E tutto il sinodo, posto sotto l’icona di Gesù che salendo a Gerusalemme Firmavit faciem suam (cioè, indurì il suo volto ad indicare la serietà del suo andare verso la Croce), fu l’esempio del suo intento di ricondurre decisamente la sua Chiesa alle fonti e alle origini stesse della comunità degli apostoli.

Questo amore all’origine stessa del Vangelo era la fonte della sua straordinaria attenzione alle persone nella loro singolarità, come quando mi capitò di incontrarlo casualmente per le scale della Villa Sacro Cuore di Triuggio durante un Consiglio Pastorale diocesano, e mi venne da dirgli “Eminenza, sono appena stato in Terrasanta con i miei figli in un pellegrinaggio alle sorgenti del Vangelo”, ed egli spalancando il volto in un sorriso e guardandomi con quei suoi begli occhi azzurri pieni di tenerezza e di luce, rispose “un giovane di oggi si lascia ancora affascinare dalla vista dei Luoghi Santi? Quei luoghi parlano ancora? Cosa hanno detto i suoi figli?”. E quando gli risposi che per questi ragazzi era stata un’esperienza unica, i suoi occhi si illuminarono ancora di più e ringraziandomi mi pregò di benedire i miei figli. Ciò fa capire quanto il biblista maestro della Parola e fine esegeta dei testi era in realtà un innamorato della concreta realtà di luoghi e persone di cui la Bibbia ci parla, e che più della parola in sé gli importava il Mistero di Dio da essa veicolata.

Ma ancora di più ricordo una sera del 1999 in cui riunì a casa sua una commissione di laici per ricevere consigli sul contenuto della lettera pastorale che avrebbe dovuto scrivere nell’imminenza del nuovo millennio. Durante la riunione mi venne da dire questo pensiero: “Ma Eminenza perché non ci ridice la bellezza dell’essere cristiani? Perché non ci parla dello splendore della fede come sorgente della bellezza della vita?”. Egli si fermò un attimo a pensare e poi esclamò “bisognerebbe avere il genio di un teologo come von Balthasar per parlare di queste cose”. E tutto sembrò concludersi lì. L’8 settembre 1999 pubblicava la lettera “Quale bellezza salverà il mondo?”, in cui partendo dall’icona della Trasfigurazione parlava della bellezza dell’essere cristiani nella sequela di Gesù, definito con perfetta aderenza al testo originale il “bel pastore” e non solo il buon pastore di cui avevamo sempre sentito dire. Mi rimane sempre nel cuore il suo amore alla bellezza che trovava proprio nella Trasfigurazione l’immagine più efficace per descrivere la parabola del cristiano, dallo splendore del Tabor alla quotidianità della vita normale. E credo che l’apertura di cui il cardinal Martini è stato riconosciuto profeta, collegata all’ecumenismo del dialogo con tutti, nascesse proprio dalla immersione personale nel mistero della bellezza di Dio, da quella profonda amicizia con Gesù che lo rende tanto simile a Benedetto XVI e che gli ha permesso di incontrare tutti.

L’argomentazione con cui interloquiva con gli uomini di cultura era finissima, come in quella memorabile serata a Varese dedicata al rapporto tra la Scienza e la Fede in cui si confrontò con il Rettore dell’Università dell’Insubria, mostrando con magistrale chiarezza la necessità di comparare con rigore le varie attitudini di conoscenza che l’uomo possiede. Moderando la serata, ebbi modo di vedere da vicino la partecipazione intima del Cardinale al dialogo con il suo interlocutore, accompagnata dai primi segnali del male che lo avrebbe poi accompagnato, in una perfetta sintesi tra il Martini coltissimo intellettuale capace di usare la ragione in tutti i suoi aspetti ed il Martini pastore che voleva raggiungere il cuore di ogni persona di quel popolo di Varese accorso ad ascoltarlo.

L’ultima volta che vidi il cardinal Martini fu all’Aloisianum di Gallarate alla presentazione di un testo di fotografie di Antonio Bandirali dedicato alla Genesi, cioè al tema della creazione dell’universo. Fu commovente l’accoglienza che mi fece, cui seguì un breve intervento dedicato alla creazione così come è presentata dal testo biblico. Era già molto segnato dalla malattia, indebolito nelle energie fisiche ma lucidissimo nel pensiero e nell’esposizione, con un desiderio di comunicare la sua grande fiducia nell’opera di Dio sempre presente nella vita, anche nelle circostanze più difficili, sempre in cerca di quella verità che, come dichiara nel suo motto episcopale “Pro veritate adversa diligere”, non può mai essere posseduta a buon mercato ma va cercata anche nelle avversità come la malattia e la morte.

Ora, come ha ricordato il Card. Scola alle sue esequie, è più che mai con noi, sepolto nel suo amato Duomo accanto alle tombe dei suoi predecessori, lui che è stato testimone fedele della fede ed intelligente successore di Sant’Ambrogio.

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