Alla fine degli anni Settanta l’Italia si stava trasformando in profondità sotto la spinta di nuove correnti culturali sollecitate dalla globalizzazione che stava realizzando un mondo interconnesso.
Questo processo avrebbe dovuto coinvolgere la politica per guidare la società verso fini e traguardi non esclusivamente materiali; i partiti politici, invece di aprirsi alle nuove dinamiche sociali, si sono chiusi in una logica di potere che ha portato alla separazione tra la politica e la società. Quest’ultima ha reagito con il rancore e la protesta, cioè con il dilagare di atteggiamenti e tendenze di carattere populistico e il mezzo televisivo ha contribuito in maniera determinante a creare il clima del nuovo populismo che ha sostituito la proposta con la critica, l’argomentazione con l’invettiva, creando le condizioni per un bipolarismo aggressivo e nominalistico che ha diviso gli italiani e ha trasformato gli avversari in nemici.
I soggetti politici che hanno sostituito il sistema dei partiti, travolti dall’indignazione popolare per i fatti di corruzione pubblica, hanno abbandonato, insieme alle ideologie, anche una visione sociale ancorata a principi e valori e hanno dato un contributo fortemente negativo alla frammentazione della società, all’emersione nelle masse di un individualismo egoistico, all’indebolimento della coscienza democratica e delle istituzioni rappresentative.
Il “berlusconismo”, il localismo della Lega, il radicalismo della sinistra e del partito di Di Pietro, il qualunquismo del movimento di Beppe Grillo stanno reindirizzando il risorgente populismo italiano contro l’attuale regime democratico per aprire la via ad un presunto, indistinto e illusorio nuovo ordine sociale.
Questo “neoideologismo” confuso e pasticcione è andato nettamente a scapito della “governance” dell’Italia; il ventennio del bipolarismo fazioso ha prodotto crescita zero, ha portato il debito pubblico dal cento al centoventi per cento fino alla cifra stratosferica di duemila miliardi, ha scialacquato duecento miliardi di proventi delle privatizzazioni, ha permesso per vent’anni l’evasione di cento miliardi annui che eguaglia la cifra del debito, ha perso settecento miliardi a causa della mancata crescita, ha tagliato gli investimenti produttivi e ha distrutto le prospettive di futuro di una intera generazione di giovani.
L’eredità di vent’anni di seconda Repubblica è nettamente deludente.
L’alternativa politica in Italia, e forse in Europa, non è più tra destra e sinistra che sono “categorie” appartenenti al passato, ad una realtà che non c’è più. In una società frammentata dai nuovi problemi emergenti e impaurita da un futuro enigmatico dove scompare il lavoro e avanza la deindustrializzazione, in cui la rarefazione delle risorse naturali e il cambiamento del clima fanno temere la possibilità di un collasso ecologico, si scontrano due tendenze: quella riformista che vuole che si cambi il Paese con vere riforme di struttura e la protesta populista che, per incapacità di analisi, non sa andare oltre la protesta e non è in grado di costruire un ordine nuovo.
La politica si è localizzata ed è divenuta subalterna al potere del capitalismo finanziario; la separazione tra politica e società consiglia di riporre nell’archivio della storia gli schieramenti che non riescono né a rappresentare né a cambiare una situazione del tutto nuova.
La politica deve ripartire dalla cultura, da cui si è scissa da troppo tempo, e ritrovare un linguaggio chiaro e uno stile concreto per spiegare alla gente problemi che sono complessi.
Il bipolarismo è inadeguato, è un’eredità del passato tant’è vero che il “berlusconismo” ha rinunciato a governare con l’uscita di scena del premier e per lo stesso motivo il Partito Democratico ha rinunciato alle elezioni in cui i sondaggi lo davano in vantaggio.
C’è bisogno di un soggetto terzo al centro che non sia il luogo del moderatismo e dell’equidistanza tra gli opposti radicalismi. Il centro è propriamente un’invenzione della cultura cristiana come campo aperto per l’incontro tra fedeli e laici, come spazio per il dialogo, come cemento di coesione sociale di un’Europa unita intesa non solo come alleanza di interessi ma come “comunità di destino” senza la quale i nostri valori e la nostra cultura sono a rischio di insignificanza.
Il centro non porta necessariamente alla ricostituzione di un partito confessionale perché non c’è più omogeneità politica tra i cattolici che militano in diverse formazioni ma con un’influenza sproporzionatamente modesta; ma propria l’insistenza con cui si discute della loro irrilevanza pone l’esigenza della concretezza del loro ruolo storicamente ineliminabile della cultura cristiana.
Nel centro, aperto alla società civile, cattolici e laici possono trovare lo spazio per un impegno comune.
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