Anni fa ho avuto la fortuna umana e professionale, anche grazie ai buoni uffici di Don Gilberto Donnini, attuale Prevosto di Varese, di incontrarmi per un tempo ragionevolmente lungo con il Cardinale Carlo Maria Martini allora Arcivescovo di Milano. L’intervista-ritratto realizzata per la TSI venne poi raccolta dall’editore Dadò (Locarno) in un piccolo libretto – ormai introvabile – dal titolo significativo “Il primato del silenzio”. Avevo seguito il Cardinale prima durante una visita pastorale a Biasca nel Cantone Ticino, un territorio della Diocesi di Milano incuneato tra quelle di Como e Lugano, poi qualche settimana più tardi ci siamo incontrati nella sede vescovile di Piazza Fontana. Ricordo una lunga fuga di saloni, marmi lucidissimi e un salotto con poltrone rivestite di raso rosso. Eleganza e sobrietà. Qualche minuto d’attesa poi l’annuncio di un prete giovane, il suo segretario particolare: “Il Cardinale sta arrivando”. Stringendogli la mano mi resi conto di quanto avesse ragione un collega milanese che aveva scritto di lui come di un personaggio manzoniano, una di quelle persone che “annunciano una superiorità e la fanno amare”. Così è stato per i ventitrè anni del suo mandato – e anche dopo – anni intensissimi sempre vissuti in primo piano, da autentico protagonista, autorevole, severo, accogliente. Un esempio per la società intera sempre più orfana di grandi figure di riferimento, di padri collettivi.
Ho riletto quel lungo dialogo con Martini e mi pare che a distanza di anni non abbia perso incisività grazie alla lucidità e alla profondità delle sue risposte che sempre travalicavano le angustie dell’attualità. Ripropongo qui di seguito alcuni passaggi di quella indimenticabile intervista.
Eminenza, Lei è stato proclamato, per volontà dello Stato Ebraico, Grande d’Israele. Cosa significa sul piano personale e per la Chiesa Ambrosiana?
Si, il Keren Kayemeth Leisrael, un’istituzione molto più antica di per sé dello Stato Ebraico, mi ha iscritto nel Libro d’oro. Questo cosa significa? Significa che viene riconosciuto un interesse molto profondo, debbo dire, un amore grande che ho per il popolo ebraico, per Gerusalemme; un amore che ha segnato la mia vita perché è stato strettamente collegato ai miei studi biblici, ai miei soggiorni a Gerusalemme. E per la Chiesa Ambrosiana significa anche, mi pare, un riconoscimento del cammino che si cerca di fare per un dialogo ebraico – cristiano, che qui è abbastanza vivo. Abbiamo istituzioni, abbiamo momenti di incontro, tutto questo ne risulta confermato e incoraggiato.
A Lei viene riconosciuta un’enorme capacità di dialogo…
Dialogare è sempre difficile, ma è molto importante; io sento profondamente in me un’ansia di ricerca continua di ciò che è più vero, di ciò che è più giusto e quindi anche il desiderio di cercare insieme con chiunque altro acconsente a fare questa ricerca, a camminare un po’ insieme verso la meta di verità cui tende l’umanità.
Per anni Lei è stato Presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee. A questo livello ha notato diverse sensibilità?
Ci sono diverse sensibilità perché ci sono diverse storie, culture, lingue, tradizioni. Tuttavia c’è una profonda sensibilità comune ai valori evangelici che poi viene vissuta diversamente secondo le diverse chiese locali, le diverse tradizioni… L’Europa in questo senso è molto più diversificata di altri continenti, L’America del Nord o l’America Latina, e quindi deve sempre fare il conto con la ricchezza estrema delle sue tradizioni culturali. A questo prezzo – fare il conto davvero con le diverse tradizioni – si può procedere molto bene insieme.
La rilevante presenza protestante nel Nord Europa incide in qualche modo anche sulla sensibilità del mondo cattolico?
Incide molto positivamente perché noi, oltre ad essere uniti come vescovi nelle Conferenze Episcopali, e quindi in un Consiglio di Conferenze Europee, abbiamo un dialogo costante con la Conferenza delle Chiese Europee che è la conferenza che raduna tutte le confessioni: da Comunione Anglicana ai riformati e tutti gli ortodossi. Quindi abbiamo un dialogo costante con loro perciò siamo stimolati mutuamente da questa ricchezza di tradizioni che caratterizza l’Europa.
Eminenza, quali sono i connotati di fondo della Diocesi Ambrosiana che lei amministra?
Mi pare sia una Diocesi che, anzitutto, è posta di fronte, più di altre Diocesi, soprattutto del Sud europeo, alla sfida della modernità, alla tecnologia, a tutto il movimento della società: economico, finanziario, culturale. Di fronte a questa sfida risponde con un Cristianesimo popolare, cioè vicino alla gente, che non cerca soltanto rifugio nelle élites, ma vuole essere disponibile a tutti, ed è una chiesa che sente l’anelito, il desiderio della santità, cioè non vuol essere una presenza mediocre ma vuol essere una presenza qualificata, forte, in qualche maniera capace di scuotere con ideali molto alti. Questa mi sembra una caratteristica fondamentale della nostra società e della nostra chiesa qui a Milano.
Lei teme di più l’ateismo o l’indifferenza?
Certamente l’indifferenza. Intanto perché l’indifferenza è molto più diffusa, e poi perché l’indifferenza porta a una pratica idolatria del denaro, del potere, mentre l’ateismo invece che si interroga, cioè che cerca le ragioni profonde del vivere, anche se dice di non averle trovate ma le cerca, non è molto temibile, è un compagno di viaggio anzi molto utile.
Oggi per un cristiano è possibile essere ricco?
Il Vangelo già rispondeva che è molto difficile, anzi impossibile che un ricco entri nel Regno dei Cieli, quindi non solo per un cristiano ma per ogni uomo è difficile essere ricco. Ma Gesù aggiungeva: “Nulla è impossibile a Dio”, cioè il Signore può darci, se siamo seri, responsabili e vigili, può donarci la forza di passare in mezzo ai beni materiali senza lasciarci abbruttire da questi beni o senza farci violenza gli uni gli altri per il loro possesso. Questa è una grazia che il Signore offre a ciascuno.
Per un cristiano il silenzio è un valore da riscoprire?
E’ un valore da riscoprire da parte di ogni uomo occidentale, perché il silenzio è ancora molto in onore nell’India, nel Giappone, nel mondo dell’Oriente; è anche onorato nell’Africa, dove tutto invita al silenzio, alla meditazione; da noi invece è quasi perduto questo tesoro, quindi va riscoperto. La mia prima parola alla Diocesi, quando sono venuto qui molti anni fa, è stata “riscoprire il silenzio contemplativo”, come necessità di aria pura per l’uomo d’oggi, quindi ci è necessario come l’aria il silenzio.
Per i cristiani la morte deve essere una naturale compagna di strada?
Io penso che lo debba essere per ogni uomo. Ogni uomo ha un problema: la sua morte. Può dimenticarla, può non pensarci, ma in realtà la emargina, la mette al di fuori e allora la lascia ripenetrare con l’angoscia, con la paura, con le nevrosi; se invece sa guardarla in faccia con la speranza, allora ha risolto il problema fondamentale dell’uomo. E quindi il cristiano è anche lui di fronte a questo problema fondamentale, con la differenza che può guardare alla morte di Cristo e alla sua risurrezione come a un motivo certissimo di speranza.
La sua, se non ricordo male, fu una vocazione precoce, credo intorno ai dieci anni. Con chi ne parlò?
Quasi con nessuno. Ne parlai col mio padre spirituale. Poi tenni la cosa per me solo, macerandola dentro di me perché mi sembrava che un segreto così importante non dovesse essere facilmente e subito comunicato. La tenni dentro di me fino al momento giusto in cui presi la decisione, o meglio comunicai la decisione perché era ormai matura per l’attuazione.
I suoi genitori furono contenti?
Furono certo sorpresi. Mia madre forse un po’ più contenta, mio padre meno; però vedendo che nasceva da una lunga maturazione rispettarono il mio desiderio
Eminenza cosa la diverte? Cosa l’aiuta a distrarsi?
C’è molto bisogno di momenti di distensione. Se riesco a strappare qualche ora agli impegni la dedico alla montagna, a passeggiare in montagna, magari da solo; o alla musica; soprattutto poi alla preghiera un po’ prolungata, cioè strappata alle circostanze quotidiane, in un luogo di ritiro dove allora c’è un po’ un insieme di preghiera, di solitudine e anche di montagna, ecco credo che le tre cose siano molto tonificanti.
Qual è l’immagine che preferisce della Compagnia di Gesù dalla quale Lei proviene?
C’è un titolo di un libro che è stato pubblicato per l’anniversario di Sant’Ignazio che dice: “Solo e a piedi”. Rappresenta l’immagine di Sant’Ignazio che cammina pellegrino per il mondo come lui stesso voleva, solo e a piedi. A me piace questa immagine perché indica una Compagnia di Gesù sempre un po’ sulle strade del mondo, cioè non ferma ma in cammino. E in un cammino in qualche modo segnato dalla solitudine perché si colloca sempre sulle frontiere culturali difficili e quindi là dove ci sono situazioni nuove, inedite. E a piedi perché si colloca anche con mezzi fondamentalmente poveri, molto semplici, cioè con una grande fede, una grande attenzione anche alle circostanze, ma fidando soprattutto in Dio. Ecco l’immagine che preferisco.
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