Opportunamente il Corriere della Sera, in coincidenza col ventesimo anniversario della strage di Via d’Amelio ( 19 luglio 1992), ha voluto in abbinamento col giornale pubblicare un instant book di Umberto Lucentini, che ricorda la grande figura di Paolo Borsellino, personaggio di piena positiva normalità in un paese che ama la retorica e le mitizzazioni. Uomo con un’alta carica di umanità e insieme scontroso a un primo approccio, capace di una calma glaciale di fronte all’efferatezza dei delitti per difendersi dal dolore, dalla rabbia e insieme di un pianto dirotto, fiducioso nel dialogo coi giovani in virtù di una sicura attesa del riscatto dal costume mafioso della terra d’origine, tenerissimo e vigile coi figli, con un rispetto profondo verso la moglie, disposto anche a lasciare nel caso non condividessero le ragioni delle sue scelte, Borsellino si rivela fedelissimo servitore dello Stato nella coscienza di un dovere, di un ministero di carità da compiere sino in fondo.
Concepisce il suo servizio di giudice in stretta connessione con l’impegno di testimonianza di un autentico cristiano. Non fa mistero della sua fede, ma non ne fa ostentazione, umile sempre e costante nella devozione. Accompagna i figli alla messa ogni Domenica, vive la religione nel rispetto della tradizione e insieme aperto ai vari problemi della spiritualità. Assidue le sue letture su Cristo anche in rapporto all’opera di Nikos Kazantzakis sull’ultima tentazione di Cristo (l’amore per la Maddalena, che Borsellino vuole sublimato oltre ogni rimpianto – impossibile – di congresso carnale). Critica una Chiesa estremamente integrata al potere, ma non se ne fa giudice implacabile, così come, pur amando le istituzioni, depreca la lentezza e l’ignavia, la sordità di taluni rappresentanti. Non accetta che l’impegno dei magistrati costituisca un alibi per le assenze e le insufficienze del Governo e delle forze politiche. La sua dedizione si estende ben oltre l’orario d’ufficio, paga prezzi altissimi a scapito della sua vita privata (blindata) (v. il caso dell’anoressia in cui incorre la figlia Lucia). Lo Stato gli addebita pure il vitto in occasione dell’esilio forzato colla famiglia all’Asinara (estate del 1985) per la preparazione della requisitoria da presentare al maxiprocesso. Di tasca sua a volte si paga la benzina per l’auto blindata.
Sa che i giudici antimafia sono come cadaveri che camminano, ne prende atto via via, che le intimidazioni fanno parte del vivere e del lavorare in Sicilia, ma pure che il coraggio di un uomo può vincere la paura, la viltà consiste nel lasciarsi vincere. Non ha mai chiesto misure di protezione, solo subendole per disciplina. Crede profondamente nel lavoro che fa. Sue proposte: un pool di giudici inquirenti ben distribuiti e in costante contatto, potenziamento degli organici di polizia giudiziaria, revisione dei criteri di scelta dei giudici popolari per assicurarne la piena indipendenza, un’anagrafe bancaria per scovare i capitali sporchi. Il pool, il lavoro d’équipe, è un esperimento non previsto dalla normativa, ma nemmeno vietato. I procedimenti devono essere guardati da tutti per i nessi intercorrenti e la specializzazione si fa sempre più necessaria.
La sua prima qualificazione è stata in termini di diritto civile. Caduto il 21 gennaio 1979 Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Paleremo, nasce il pool sotto la regia sapiente del Consigliere istruttore Rocco Chinnici. Anche per lui scatta la trappola con un’autobomba il 4 agosto 1983. Il 9 novembre arriva da Firenze Antonino Caponnetto, siciliano d’origine, accettando la sfida e i rischi conseguenti. Borsellino lavora a stretto contatto con Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello, Giovanni Falcone. Grazie al pentimento di Tommaso Buscetta, boss di Porta Nuova e alle sue confessioni il 30 settembre del 1984 scattano le manette per 366 mafiosi (blitz di S.Michele). è l’inizio dell’ipergarantismo invocato per l’uso indiscriminato dei collaboratori di giustizia rimproverato da certi ambienti. Il 4 agosto 1986 Borsellino si insedia come Procuratore a Marsala, vincendo le resistenze a lui opposte in termini di anzianità di carriera (non certo di merito specifico). Qui le indagini, prima sonnolente, conoscono uno stile mutato. Si lega in forte amicizia col maresciallo Carmelo Canale e risolve il caso del fisico Majorana, misteriosamente scomparso.
Notevoli le delusioni coll’avvento di Antonino Meli in qualità di Consigliere istruttore a Palermo (smantellamento del lavoro del pool – gennaio 1988 – divisione delle inchieste in più tronconi), con la sentenza d’appello del maxiprocesso a Cosa Nostra (una doccia gelata), scontri anche con Pietro Giammanco, successore di Meli, allorché Borsellino diventa Procuratore aggiunto nel capoluogo. Poi le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Per Caponnetto Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988, quando ingiustamente Leonardo Sciascia attaccò inopinatamente i cosiddetti “professionisti dell’antimafia”.
Il testamento spirituale di Paolo Borsellino si può rinvenire in una lettera a una professoressa di Padova del 19 luglio 1992, in cui soprattutto chiarisce le caratteristiche del fenomeno mafioso: si tratta di un’organizzazione criminale unitaria e strutturata verticisticamente, che si distingue per la territorialità e la sovranità della cupola, con infiltrazioni negli organi pubblici dello Stato e il condizionamento dall’interno.
Se consideriamo Paolo Borsellino un eroe, è perché la normalità soffre di una crisi profonda. Interessi personali più o meno spregiudicati, relativismo dei valori ci allontanano da una misura che il giudice non riteneva proibitiva.
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